martedì 2 giugno 2015

Blog SOALTÀ

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PRESENTAZIONE DI "H-OMBRE-S" (Video)

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“Intervista a Guglielmo Peralta”

     by Susanna De Candia
          17/01/2012     
                       
Temperamente è lieto di ospitare, nel nostro consueto salotto letterario virtuale, l’autore del romanzo H-ombre-s. Guglielmo Peralta, palermitano, è stato insegnante elementare e docente nelle scuole medie e superiori. Scrive poesie, racconti, saggi, romanzi e nel 2004 ha fondato la rivista monografica della Soaltà.

Soaltà è un neologismo da lei coniato per indicare una dimensione tra sogno e realtà. Quando l’ha scoperta e cosa rappresenta per lei?

La soaltà, più che indicare una dimensione tra sogno e realtà, è la loro identità, la sintesi perfetta tra mondo del sogno o della visione, e visione del mondo, ossia: tra la realtà interiore, in cui si rappresenta il mondo del sogno, e la realtà esteriore, in cui il sogno acquista un corpo e, dunque, visibilità.  Per comprendere come non ci sia opposizione tra la realtà e il sogno, bensì piena identità, bisogna accogliere con flessibilità e senza pre-giudizi il nuovo concetto di sogno; occorre fare posto, accanto ai suoi significati tradizionali e ormai radicati, al nuovo significato che esso acquista relativamente alla visione soale. Qui, il sogno non è il fenomeno onirico né il desiderio che accarezziamo ad occhi  aperti,  ma  è l’idea,  l’immaginazione creatrice, la  rappresentazione che lo s-guardo creativo sollecita e contempla sulla scena che si apre dietro le quinte dell’occhio. Il sogno è quest’intima apparizione, il mero fenomeno che dà consistenza alla realtà; che in-siste, sta dentro di essa annullandone l’aspetto illusorio.
La scoperta di soaltà (“scoperta” è il termine esatto, poiché sempre si scopre – ne sono convinto – qualcosa che già esiste autonomamente, in noi o fuori di noi, e che a un certo momento si svela venendoci incontro), è avvenuta ventisei anni fa, ma allora era solo un neologismo, una parola contenente un pensiero nuovo, un’idea, un lucore, un magma in attesa di effondersi, e ancora, una “materia” che avrebbe conosciuto nel tempo il suo big bang.
La soaltà: il suo spirito, la sua natura, il suo essere e il suo divenire non si possono concentrare e spiegare in una sola definizione. Essa rappresenta per me una Soaltanschauung, una nuova visione del mondo, una rivoluzione ottica. È l’universo delle idee, che genera il mondo delle cose, ed è la visione che concilia, fino a svelarne l’identità, il regno dello spirito, cui appartengono i sogni, con il regno della materia, cui appartengono le cose, risolvendo così l’opposizione tra queste due nature, colta dall’opinione comune fondata sulla “cattiva” vista. Alla concretezza della realtà fisica, materiale, si contrappone la “concretezza” del sogno spirituale. Sogno e realtà sono ritenuti opposti e distanti perché collocati in regni separati. Ma lo spirito è la realtà interiore dell’uomo. È lo spazio  sacro della creazione, dove si rappresenta il mondo del sogno, o della visione. Ed è, al tempo stesso, la realtà esteriore che gli dà corpo e visibilità; un corpo che è una veste “confezionata” dallo spirito stesso.
Che importanza hanno i sogni nella vita di ognuno e, in particolare, per i giovani di questo sempre più tecnologico terzo millennio?
Il sogno, nel suo significato soale e come è stato già definito nella prima risposta, è creativo e ci fa eliotropi volgendoci verso la luce della bellezza, all’interno del regno dello spirito. Lo s-guardo, che opera questa conversione, riconduce il mondo dentro di noi, a differenza dei sensi che lo tengono fuori. Così lo abitiamo ed esso si concede al nostro spazio interiore, lo guardiamo da quel punto di vista radiante e ne cogliamo l’intima natura, generata dal sogno del Divino Creatore. Insieme col mondo, le cose tornano ad essere nostre creature e ne cogliamo la bontà, inscindibile dalla bellezza e dal sogno da cui sono nate, da cui nascono, per esserci fedeli compagne nella vita di ogni giorno, per servirci e alleggerire le nostre fatiche. Dentro ci sentiamo migliori, restituiti a noi stessi. Impariamo a sognare con altri occhi, con lo s-guardo che ci decanta e incanta mantenendoci saldamente nella realtà, che esso autentica e rende più vera con la sua luce creatrice. Sì, questo è il sogno che dà importanza alla vita e che consiglio a tutti, ai giovani, soprattutto, di coltivare, di volere fortemente. Non è un sogno da realizzare ma da scoprire ogni giorno nel suo luogo naturale e a noi familiare, dove possiamo accedere tranquillamente con lo s-guardo, che è la password universale, e dove solo possiamo sentirci veramente sicuri e aperti alla comunicazione della vera ricchezza che riceviamo, che vi cogliamo. Più dei sogni comuni, “tradizionali”, vale questo sogno pantocratore, da cui deriva anche la tecnologia e che la supera andando sempre oltre, perché esso è il progresso ed è la vera cultura e la civiltà da riscoprire. Con questo sogno dobbiamo imparare a guardare il mondo; in sua costante presenza dobbiamo e possiamo addentrarci e andare con passo sicuro nella selva dei siti tecnologici sapendo che cosa cercarvi, come utilizzarli e  uscirne più ricchi senza correre il rischio di perderci.

Tra tutte le forme di scrittura nelle quali si destreggia, quale preferisce?
Alla base di tutte le scritture e, dunque, del pensiero creativo, c’è la Poesia come predisposizione dell’anima alla bellezza e che apre alle forme dell’arte o della creazione; come voce che chiama e alla quale non si può non rispondere. Pertanto, non ho preferenze riguardo alle diverse forme di espressione, ma tutte le prediligo. Avendo tutte, come già detto, la Poesia come matrice comune, nell’esprimermi in una forma o nell’altra ho sempre l’impressione di “fare” poesia!

“H-ombre-s” pullula di richiami letterari. Quali sono gli autori o i libri che l’hanno segnata significativamente? E quale, tra i classici, può considerare il più “attuale”?
I libri, innanzitutto! Essi hanno alimentato, in maniera inesauribile, l’amore e la passione, prima per la lettura e poi per la scrittura, quando l’una non aveva ancora per me un volto, un nome da sfogliare e la scrittura, angelo senza ali, giaceva in un cielo ancora sconosciuto. Sempre ho visto nei libri un simbolo della cultura, della poesia, della bellezza e ne ho avvertito il fascino fin da bambino, quando, ancora in età prescolastica, ad attrarmi erano i libri di scuola dei miei fratelli più grandi. Il primo grande autore, che mi ha sollecitato e “iniziato” alla scrittura, è stato John Steinbeck, di cui ho letto tutti i romanzi. A seguire, tanti altri autori e tantissimi libri spaziando negli ampi pascoli della poesia, della narrativa, della saggistica, della filosofia, del teatro. Di ciascuna di queste coltivazioni, mi limito a segnalare tre nomi. Per la poesia: Leopardi, Neruda, Pavese. Per la narrativa: Dostoevskij, Hesse, Buzzati. Per la saggistica: Blanchot, Foucault, Borges. Per la filosofia: Hegel, Heidegger, Cartesio. Per il teatro: Pirandello, Ionesco, Shakespeare. Tra i libri che mi hanno “segnato” e che ricordo con rinnovato stupore, cito: “Le parole e le cose”, di Foucault; “In cammino verso il linguaggio” e “Sentieri interrotti”, di Heidegger; “Lo spazio letterario”, di Blanchot; “Altre inquisizioni”, di Borges; “Fahrenheit 451”, di Bradbury; “L’idiota” e “I fratelli Karamazov”, di Dostoevskij; “Platero y yo”, di Jimenez…  Per quanto riguarda il “classico” più attuale, dico che l’attualità di un libro, definito un classico, non è legata al tempo che, trascorrendo, può relegarlo in soffitta, ma al nostro spazio interiore e al calco che vi ha lasciato, sul quale possiamo modellare, per sempre, il nostro sogno e il nostro stile di vita. Ma se proprio devo scegliere tra i classici, Pirandello è attualissimo perché nel suo teatro non c’è nulla d’inventato. Esso rappresenta la vita, ne svela gli aspetti più intimi e segreti lasciando cadere le maschere e mostrandone il volto nella sua nuda e cruda verità.

Che consiglio sente di offrire a quanti oggi leggono e scrivono?
È già una “fortuna”, un miracolo, leggere e scrivere. Per cui un consiglio andrebbe dato a chi non gode di queste due forme di “ricchezza”. E il consiglio è, appunto, di accostarsi con curiosità alla lettura, che è, comunque, un bene a portata di mano (o di occhi), e di mettersi alla prova con la scrittura, cosa più difficile ma possibile, in quanto ognuno è libero di esprimersi e può farlo a diversi livelli, secondo le conoscenze acquisite, secondo il proprio bagaglio culturale e il proprio talento. Per quanto riguarda coloro che praticano o, meglio, coltivano queste “piante” dello spirito (la lettura, che dà frutti già maturati e concimati con la sostanza spirituale; la scrittura, che genera l’albero della lettura e vi appende i propri frutti), mi sento non di consigliare, ma di ricordare di ringraziare sempre il Poeta universale per il dono o grazia ricevuta, per questi beni ofelimi, che hanno come “utilità”, soprattutto il godimento estetico, il piacere puro, derivante dal loro uso e dal loro semplice possesso.
 
Ringraziamo Guglielmo Peralta e ci auguriamo di ospitarlo anche in futuro.



Guglielmo Peralta
Genesi e sviluppo del romanzo

1. L’idea

Questo mio romanzo, come ha giustamente affermato Franca Alaimo, è “un inno alla divina creatività dell’uomo, alla letteratura e alla poesia. È un unicum sulla letteratura nella storia della letteratura”. In effetti, il romanzo è una celebrazione e un omaggio a tutti gli autori, passati, presenti e a-venire. Essi vi sono tutti rappresentati attraverso una folto “campionario” di personaggi “prelevati” dal mondo della scrittura e collocati in un Castello, che richiama quello del romanzo  kafkiano ma che nel mio testo appare trasformato assumendovi una connotazione del tutto nuova. Esso è, fuor di metafora, lo spazio letterario, lo spirito infinito dell’uomo, il “luogo” dove nascono tutte le produzioni umane.
“H-ombre-s” prende l’avvio proprio da K., il personaggio protagonista de “Il Castello” di Franz Kafka, rimasto incompiuto, al quale, dopo più di ottant’anni (1), io do accoglienza e ospitalità nel mio romanzo, che, se da un lato, può considerarsi anch’esso incompiuto per l’impossibilità di farvi rientrare effettivamente tutti i personaggi della storia della letteratura mondiale e farli parlare e interagire tra di loro, dall’altro lato, esso è un’opera infinita, perché idealmente tutti quei personaggi
vi sono contenuti, abitano tutti in quel Castello della creazione, in quel “luogo” u-topico dell’anima, o dello spirito, in-scritto, “chiuso” come un’enclave nel “territorio” dell’umana corporeità e, tuttavia, infinitamente aperto e sconfinato.

2. Il titolo

“Il Castello” sarebbe stato il titolo ideale, rispondente al tema fondamentale trattato, e, soprattutto, in continuità con l’opera di kafka. Tuttavia, non volendo ripetere il titolo kafkiano, ho scelto H-ombre-s: una parola spagnola che, oltre ad avere assonanza, identità di suono con il termine italiano ombre, lo contiene in sé, così che essa acquista il doppio significato di uomini e di ombre rivelandosi parola epifanica. Infatti, oltre a rispecchiare la natura dei Personaggi (non esclusivamente quelli del mio testo, ma di tutta la narrativa mondiale), i quali sono Ombre fatte a immagine e somiglianza degli uomini, essa rivela la stessa condizione umana. Noi uomini, infatti, siamo ombre, siamo Personaggi, se immaginiamo il mondo, la vita, come l’infinito sogno o Romanzo di Dio; saremo ombre dopo questa vita, in un “regno” che non sappiamo e ombre siamo  in questo mondo, in questa realtà, forse apparente, dove andiamo in cerca di una verità che riveli la nostra vera essenza. Tutte le lingue hanno delle parole epifaniche, rivelatrici. E ciò è veramente qualcosa di grandioso che rende potenti le lingue, le quali, anche se sono tra di loro straniere e separate, non lo sono però del tutto, costituendo tutte insieme un’unica Lingua universale, una galassia infinita di segni. E perciò esse ci permettono di ampliare il nostro orizzonte linguistico e  semantico, di guardare in questo orizzonte s-confinato (senza confini) e scorgervi nuovi mondi, generati dalle loro parole epifaniche portatrici di nuove idee, di nuovi significati, di nuovi cieli d’arare.

(1) Das Schloss, composto nel 1921-22, uscì postumo nel 1926. La stesura di H-OMBRE-S inizia nel 2006, anno in cui K. è accolto nel  Castello, all’interno di questo romanzo

3. L’esergo

In esergo ho posto tre citazioni di tre grandi uomini/autori (Wojtyla, Novalis, Borges). Devo direDevo dire che mi sono imbattuto in esse sfogliando dei testi, qualche tempo dopo avere finito di scrivere il romanzo. Esse sono saltate fuori all’improvviso da quei testi, mi sono venute all’incontro, ed è stata per me una grande sorpresa rendermi conto di come queste citazioni calzassero a pennello ai miei personaggi, di come già gli appartenessero, avendole io messe, in qualche modo, loro in bocca. A pag. 36 Pinocchio dice: “Voglio sul serio andare nel mondo e fare della mia vita un autentico capolavoro”. ( K. Wojtyla: “Prendete in mano la vostra vita e fatene un capolavoro”) E a pag. 163 Il Padre, la Figura principale dei Sei Personaggi pirandelliani, osserva: “Meglio sarebbe per noi, se ci  salvassimo facendoci autori di un sogno tutto nostro”, che è come dire con Novalis, citato in esergo: “La vita non deve essere un romanzo impostoci, bensì un romanzo fatto da noi”.
Per quanto riguarda la terza citazione, di Borges, anch’io ho sempre immaginato, non proprio il Paradiso (come dice Borges), ma il luogo della creazione, il Castello dello spirito, come una biblioteca infinita.

4. I temi

a. La volontà di vivere dei Personaggi

Essa nasce quando i Personaggi acquistano coscienza, tramite Beatrice, che la loro vita è illusione, finzione, sogno, in quanto “trasmessa” dagli uomini, dai loro autori. Essi perciò anelano a vivere, razionalmente, in un mondo reale, persuasi di potere “costruire” una vita nuova, di inaugurare una nuova stagione dell’uomo e di realizzare la propria salvezza.

b. La catarsi

La volontà di vivere dei Personaggi non è quella forza cieca, irrazionale, di cui parla Schopenhauer e che ha come scopo la sopravvivenza dell’uomo, ma è il desiderio della catarsi, che essi credono di potere raggiungere attraverso una vita autentica, reale, fuori dal sogno, fuori dalla finzione imposta dai loro autori.

c. Il sogno, ovvero, l’autorealizzazione

I Personaggi, a lungo andare, si persuadono sempre di più di potere realizzare il salto nel mondo attraverso un sogno tutto loro, attraverso, cioè, un pensiero creativo autonomo, che li renda autori della propria vita, convinti, anche, di fare di essa un’opera d’arte, in sintonia con la Bellezza.
d. Il piacere estetico. L’utilità dei Personaggi, ovvero, della letteratura e, in particolare, dei libri
I Personaggi, inoltre, sono confortati dall’idea di potere realizzare la loro catarsi, soprattutto attraverso il piacere estetico che essi procurano agli uomini e che avvince costoro nell’ascolto della parola che tesse le loro Ombre, le loro vite sognate. I Personaggi ritengono, infatti, che il godimento, indotto agli uomini attraverso la lettura dei libri, sia sufficiente a farli sentire affrancati dal male e dalle sofferenze che essi patiscono per “volontà” dei loro dei mortali. Essi (come le cose, ma in un modo differente da queste, e cioè spirituale) servono agli uomini,
perché, in quanto messaggeri e “testimoni” della bellezza, sono, appunto, strumento di liberazione, di godimento estetico per l’uomo, o, più semplicemente, di distrazione, di divertissement. In un senso più alto e auspicabile, ne realizzano la catarsi. Ma proprio in virtù di questo loro servigio reso ai mortali, sono, soprattutto, essi stessi ad affrancarsi dalla sofferenza di una vita, sì, illusoria, ma forse per questo ancora più tragica, e ad ascendere, infine, al decimo cielo.

e. L’autonomia e la persuasività dell’opera d’arte

La Bellezza si riverbera nel linguaggio, nel dire della parola poetica che scaturisce dalla sorgente, dal quel Dire assoluto e originario che è il Verbo, la Parola creatrice, la Poesia. E qui, l’opera d’arte è autonoma, in quanto “gode” di quella Bellezza che è verità assoluta e ineffabile. È questa Bellezza che, alla fine, persuade i Personaggi a rinunciare al mondo, dove, peraltro, “vivono” attraverso i libri. È nel nome e nella verità della Bellezza che essi ascenderanno al decimo cielo e porteranno così a compimento la loro metamorfosi unendosi alla Parola, divenendo essi stessi Parola, Volto divino, volto dell’Autore, Creazione.

f. L’est-etica

Essa è l’arte del dire il bello in coniugazione con il buon dire, cioè col dire ciò che è buono. È questa fusione di bello e di buono, in cui l’est è emanazione, riflesso della lux divina, di quel Dire originario che è il Verbo dell’essere con cui Dio crea tutte le cose avendo cura, assicurandosi che ogni cosa creata sia Buona, cioè Bella. L’est, dunque, è questa luce che origina ed orienta e su cui va fondata la nuova etica del mondo.

g. Eticità e altruismo dei personaggi

C’è un aspetto etico nei Personaggi, nel loro desiderio, nella loro manifesta volontà di conquistare la libertà per potere intraprendere la lotta per una giusta causa, ossia, per combattere a difesa degli umani, contro gli umanoidi che ne minacciano l’esistenza.

h. Il sacro: ciò che rivela e ciò che è rivelato

Il sacro è la presenza della divinità nella natura fisica e nella natura umana. Entrambe le nature, dunque, sono sacre, essendo creature di Dio e perciò strettamente unite alla natura divina che, però, resta invisibile. Il sacro è, allora, questa unione delle nature visibili (fisica e umana) e della natura invisibile (la divinità). È ciò che è s-velato dalla natura e dall’uomo, che svolgono questa funzione
rivelatrice: l’una con la bellezza e con la bontà emanate e sancite dal Verbo; l’altro con la sua attività creatrice. Il rivelato è la “manifestazione” del divino, che fa sacro ciò che lo rivela sottraendolo all’“invisibilità”. Oltre all’uomo e alla natura fisica, sacre sono anche la natura seconda, o artificiale, e l’arte, per mezzo delle quali pure accade la rivelazione. Le cose, in quanto create dall’uomo, sono create, indirettamente, da Dio, perché da Dio viene all’uomo la creazione. Esse, perciò, sono sacre, perché com-prendono le due nature che procedono da Dio“: quella fisica da cui sono tratti i materiali con cui sono costruite, e che è la loro natura specifica, e quella umana che le concepisce. L’arte, che ha a che fare in maniera più diretta con lo spirito e le sue produzioni, ancora di più delle cose svela l’origine “divina” delle opere e, dunque, la presenza della divinità in esse.

i. Lo s-guardo e il volto delle cose

Chi dà sacralità alle cose materiali è lo s-guardo (la visione soale), che le coglie nel “luogo” della loro origine rivelandone la doppia natura: umana e “divina”. Cogliere questa unione è vedere il vero volto delle cose; significa stabilire con esse un nuovo legame, un’autentica “comunicazione” che, al di là del legame “utilitaristico”, le tragga dall’oblio o dalla distrazione con cui le usiamo quotidianamente.
l. La giustificazione estetica dell’esistenza dei Personaggi e la coscienza permanente della bellezza
In un luogo del romanzo, Sierva Marίa dice: “Il godimento degli occhi è il trionfo dell’arte, il miracolo della Bellezza solo per la quale esistiamo! I libri sono la prova e la giustificazione estetica della nostra strana e favolosa esistenza”.
L’arte, dunque, giustifica l’esistenza dei personaggi, in quanto essi sono portatori e custodi della bellezza, partorita dal dolore, dalla tragedia umana che la bellezza stessa trasforma e purifica. I personaggi “esistono” (e, dunque, esiste l’opera, l’opera d’arte) perché servono all’uomo, gli sono utili perché lo “liberano”, lo distraggono in qualche modo, e sia pure per brevi istanti, dalle ambasce e dalle preoccupazioni suscitando e rafforzando in lui il desiderio del bene. Acquisire una volontà est-etica significa trasformare la coscienza di questa distrazione, che è il godimento estetico momentaneo, nella coscienza permanente della bellezza che è in noi e intorno a noi; significa fare delle microestasi dei momenti duraturi, persistenti, per sentirsi affrancati e liberati dalla pesantezza del vivere.

m. La soaltà

Nell’aspirazione dei Personaggi a realizzarsi, a divenire reali attraverso il sogno, un sogno che non sia invenzione del loro autore, ma frutto della loro volontà e immaginazione creatrice, è implicito il concetto di soaltà. ( Una breve parentesi, per dire che la soaltà è, fin qui, la risposta ultima al problema degli opposti. Essa, nascendo come sintesi di sogno e realtà, che sono altri nomi dell’Io e del Non-Io, elimina la contraddizione dell’Idealismo. Ma sorvoliamo su questo aspetto, che richiede una trattazione a parte). A parlare, ad esplicitare la soaltà, sono Don Chisciotte e, soprattutto, le Cose. Il sogno non è solo l’autorealizzazione dei Personaggi, che è una “verità” letteraria, ma è, soprattutto, una verità della vita, una realtà, al tempo stesso, umana e divina, un’esperienza interiore e un oblio che richiedono un nuovo punto di vista, uno s-guardo che (si) apra una nuova visione e
metta in “chiaro” il sogno nella concretezza della realtà, di cui è principio e parte costitutiva. Le cose, prima di essere tali, sono sogno, idea, realtà interiore dell’uomo che prima le immagina, le concepisce e poi le costruisce dando così loro una forma e un corpo materiali. Esse sono, dunque, soaltà, “dentro” e fuori: sintesi perfetta di sogno e realtà, di spirito e materia, di natura umana e fisica, che essendo, per derivazione, “divine”, trasferiscono alle cose l’impronta della divinità. E ciò è espresso chiaramente dalle Cose (pagg.145-146): «(…) celato dentro di noi vive lo spirito dell’uomo e cioè quel sogno, che è la nostra origine e che nella sua unione con la realtà fa della nostra natura morta una natura soale!...E così, in virtù della soaltà, anche se noi non viviamo, siamo tuttavia nel mondo! (…) L’uomo non ha occhi per la nostra natura soale che in sé unisce le due realtà: quella umana del sogno che ci concepisce e quella divina della natura da cui il nostro artefice trae la materia prima con la quale veste il sogno dando così a noi un corpo reale. Sì. Noi siamo l’incarnazione del sogno e la sua realtà visibile!...Sogno e realtà, spirito e materia sono la nostra anima e il nostro corpo. Tuttavia, siamo natura morta in attesa della resurrezione! La quale potrà avvenire solo se il nostro artefice ci restituirà alla bontà e alla bellezza del sogno liberandoci dall’uso che ci degrada e in cui siamo obliate e condannate alla sparizione».

n. L’oblio e la resurrezione delle cose

Il sogno è lo spirito e l’anima delle cose. Ritenute corpi inanimati e classificate come natura morta, per l’incapacità degli occhi di coglierne l’essenza vitale, le cose finiscono per essere consegnate dall’uso all’oblio e condannate, perciò, alla sparizione. Una doppia morte, dunque, è il loro destino, nonostante la loro esistenza sia necessaria e ausiliaria alla vita dell’uomo. Tuttavia, gli occhi hanno
il potere di ridestare le cose, perché, in virtù dello s-guardo soale, essi ripercorrono il processo creativo aprendosi all’interiore spettacolo, del quale finiscono per essere spettatori sulla scena del mondo dove il sogno, rappresentato dagli oggetti, finisce per “manifestarsi”. Attraverso questa rinnovata vista - si legge nel romanzo - si apre nelle Cose la soglia della coscienza al di là dell’oblio, dove giacciono e sono natura morta, servitrici accondiscendenti e devote, mute presenze, abusate e rese schiave dall’uso indiscriminato e scriteriato. Esse vedono dentro la loro notte e anelando la luce mostrano la loro essenza spirituale, sollevate un poco dalle  fatiche del mondo. Infelici nella loro esistenza mondana, furono felici nel luogo dell’origine, quando non avevano ancora un corpo ed erano solo il sogno del loro creatore, lungi dal divenire preda dell’oblio, dall’impallidire nell’uso quotidiano fino alla completa e inesorabile sparizione, dall’essere trascurate, distrutte, mortificate nei mercati, ridotte a merci comprate e vendute, abusate dal denaro o, peggio ancora, usate contro la loro natura, fuori dall’uso per cui sono state create.
Riconoscere che il sogno è la natura spirituale delle cose è destare queste dormienti e proclamare la loro resurrezione.

o. Il potere come assenza del potere

Dice Amleto, a pag. 158: « Desidero un regno senza sudditi, dove ciascuno sia re di sé stesso e in virtù dell’amore e della Bellezza eserciti quel sano potere che gli consenta di dire: Io Posso!...di agire, cioè, da onest’uomo, secondo libertà, verità e giustizia». Si auspica, qui, l’esercizio di un potere illuminato dall’amore e dalla Bellezza, di una facoltà claritativa che, in assenza di ogni potere, conferisca all’uomo l’assoluta libertà di agire nella legalità della luce, e renda così lecita ogni azione dandole il giusto valore. La claritas, che in Tommaso D’Aquino è uno dei requisiti della bellezza, insieme con l’integrità o perfezione e con la debita proporzione, è, nella visione soale, la luce della Bellezza che deve fecondare la ragione conferendole quella potestà di agire ed essere guida all’uomo orientandolo verso il bello e il buono.

p. L’identità di essere e non essere

Attraverso l’identità del sogno e della realtà (soaltà), Amleto scioglie il suo dubbio esistenziale e perviene alla conciliazione degli opposti risolvendo, con una grande equazione, la fondamentale questione dibattuta dalla filosofia, fin dai presocratici. Egli comprende che l’esistenza è l’apparire dell’essere nella forma del non essere, che, cioè, la realtà è una condizione, una modalità del sogno: lo stare fuori dell’essere come altro da sé, come un non essere che non è negazione dell’essere, ma l’essere medesimo nelle sue forme o modi diversi e molteplici di ex-sistere. Questa intuizione gli permette di formulare l’equazione: l’essere sta alla non esistenza come il non essere sta all’esistenza. E da qui il suo pensiero lo porta a concepire, a dimostrare l’esistenza di Dio negandone l’esistenza stessa: “Gli uomini – egli dice – in quanto esistono non sono, mentre Dio è, in quanto non esiste. Così, negare l’esistenza di questo Dio è comprenderne e affermarne la pura  esistenza, l’Essere puro che riposa in sé stesso! Solo in quanto privo di esistenza mortale, Egli poté dire con verità e certezza: ‘Io Sono Colui Che Sono’, confermando, rafforzando così il proprio essere assoluto”.

q. Il rapporto tra l’opera e l’autore e tra l’autore e i personaggi. Dal “Loquor, ergo sum” all’“essere parlato”

Altra questione dibattuta dalla filosofia e dalla critica moderna, a partire da Mallarmè in poi, riguarda il rapporto tra l’opera e l’autore, tra l’autore e i personaggi, e, in particolare, il problema dell’eclissi, della scomparsa dell’autore. L’opera che, prima di Mallarmè, assicurava l’immortalità al suo autore, ora ne decreta la “morte”. Essa, una volta compiuta, congeda l’autore, il quale, da soggetto parlante, diviene muto e assente. Io ridò esistenza all’autore, riconsegno a lui l’opera riconducendolo all’interno di essa, facendo di lui una voce, un io parlante che non è l’io narrante che può coincidere col personaggio protagonista e con l’autore stesso che, pur parlando in prima persona, resta fuori dall’opera, ma è l’io che parla senza agire, senza essere personaggio. Nel mio romanzo l’autore si rivela, si manifesta ai suoi personaggi, che lo invocano, dichiarando la sua  vocazione, il suo diritto di sognare, il suo amore per la poesia e la bellezza. Ecco, allora, che l’autore, escluso dall’opera e, dunque, dal proprio linguaggio, con questa sua dichiarazione torna ad essere il soggetto parlante, l’io che parla al di là della narrazione, al di là dell’io narrante tornando così ad esistere all’interno dell’opera. Tuttavia, questa mia operazione non risolve del tutto la questione del rapporto opera/autore, la quale si ripresenta se ci chiediamo che cosa sia l’opera e che cosa sia o chi sia l’autore; se l’opera preceda l’autore o viceversa. A differenza dell’uovo e della gallina, qui possiamo rispondere che non può esserci autore senza l’opera, la quale, dunque, precede l’autore, a meno che non si ritenga autore chiunque sia in grado di parlare e scrivere, a meno che non si consideri opera qualunque cosa sia detta o scritta fuori dal modo dell’arte. E in questo caso,  resta da chiedersi se basti un soggetto parlante perché un’opera si costituisca, e se un prodotto qualsiasi sia sufficiente a fare di un soggetto parlante un autore. La questione va affrontata solo nell’ambito della creazione artistica, dalla quale non si può prescindere e di fronte alla quale possiamo dire con certezza che l’autore è un essere contingente che deve all’opera la propria effettiva esistenza. Per risolvere il problema, per dare una risposta definitiva bisogna rispondere alla domanda: Chi parla? È l’autore che parla e crea l’opera, espressione del suo linguaggio, oppure è  l’opera, cioè il linguaggio, che parla e si determina tramite colui che, impropriamente, chiamiamo autore? Se è l’opera che parla, essa è, allora, l’ “autore”, e, in quanto indipendente dal soggetto, è autonoma, si autocostituisce, si origina da sé. Sul finire del romanzo, i personaggi chiedono all’autore una voce affinché possano veramente parlare e, dunque, esistere. Essi, così, auspicano la scomparsa dell’autore, solo in assenza del quale possono veramente parlare. In assenza della voce, i Personaggi sono solo linguaggio, sono parlati dall’autore, e anche in ciò somigliano all’uomo (al loro autore) il quale, per dirla con Heidegger, parla in quanto risponde al Linguaggio, ossia alla Parola che lo chiama alla creazione. E che cos’è questo Linguaggio se non l’Opera, solo a partire dalla quale può esistere l’autore, il soggetto parlante? L’autore (e cioè io) dichiara di non avere una voce da donare ai suoi Personaggi, e, in mancanza di questa voce, egli stesso difetta della parola, parla solo nell’assenza della Parola che lo parla. Dice infatti l’autore: “parlare è un miracolo che non è concesso nemmeno ai poeti”.
L’assenza della Parola, l’impossibilità, cioè, di parlare, di entrare nello spazio sacro del Linguaggio, “non consente a noi sognatori di giungere all’Opera e di approdare al suo canto, a quella Verità che richiede la vita in sacrificio e che non perdona a chi osi guardarla!”

r. Verità e mito.

E qui il mito parla chiaro. Dice tutta la verità, che resta invisibile agli occhi e che si cela nel canto delle sirene, nel volto di Euridice, nello sguardo di Orfeo, nel frutto proibito ad Adamo…verità, che coincide con la morte, col canto medesimo, che si può ascoltare e riprodurre solo a prezzo della vita, perché cantare, parlare, essere autore significa morire e, cioè, entrare, definitivamente, nello spazio dell’Opera, nello spazio infinito della creazione.
Guglielmo Peralta

Altre recensioni


Come definirlo? Saggio teatrale o romanzo? E' indubbiamente un viaggio nella cultura e nella letteratura, un racconto visionario con atmosfera di attesa e i molti personaggi, materia della narrazione, da personaggi della letteratura diventano protagonisti dell'azione, concretizzano sogni. Atmosfera rarefatta in questo viaggio lungo viali letterari, ombre e misteri, luci e abbracci e il sogno è o non è fantasia e le cose sono forse vive e reali. Imperano allegorie in questo originale racconto visionario, in questo viaggio fra le pietre miliari della letteratura della storia e dell'umanità e si intravede un'ascesa spirituale attraverso dialoghi e monologhi dei personaggi. E questa ascesi delle anime liberate avviene per mezzo dell'amore e il percorso si compie. H-ombre-s è un abbraccio perfetto fra realtà e fantasia e l'uomo/burattino è realtà e non favola. Ebbene sì, è un romanzo.
Carlo Mosca




Caro Guglielmo,

Ho appena chiuso il tuo libro e subito ti scrivo, a mente ancora calda. "H- ombre-s" è stato una piacevole rivelazione, un libro di ampio e al tempo stesso profondo respiro, che potrebbe giungere a un vasto pubblico per l'interessantissimo argomento che hai scelto. E' opera impegnativa in quanto a ideazione, ma la resa "popolare" (nell'accezione ovviamente positiva del termine) predispone a una lettura distensiva. Appena ho iniziato a leggere, mi sono sentita a perfetto agio, essendomi imbattuta in riferimenti kafkiani. Amo molto Kafka. Non ricordavo fossi anche artista, oltre che uomo di lettere, come ho scoperto dal disegno di copertina. Una soaltà tra luci e ombre, poesia e narrativa. Da tanti anni porti avanti con convinzione la tua ricerca, e sono convinta che molte persone ne siano rimaste positivamente influenzate. Con la scrittura mantengo un rapporto contraddittorio. Non rappresenta per me un porto sicuro. Quando affermo ciò apertamente, parlando con altri scrittori e poeti, a volte mi guardano storto perché non condivido il loro entusiasmo assoluto nei confronti della letteratura. In H-ombre-s, quindi, ho apprezzato la riflessione sincera, l’onestà intellettuale, il coraggio di scorgere le imperfezioni dell’ingranaggio creativo. Mi congratulo con te per questa pubblicazione. Che il 2012 ti porti ulteriori successi, a livello personale e letterario! Ancora grazie per il dono del tuo insolito libro.
Cordialmente

Claudia Manuela Turco
 


In effetti, anche i personaggi dei libri possiedono una propria vita, per quanto immaginaria. Peralta ha compiuto una singolare operazione: un romanzo (ma il termine è riduttivo) ove essi si incontrano, con particolare riferimento a K., ossia Franz Kafka. Ma la trama pone una serie di interrogativi e proposte difficilmente riassumibili. Il titolo, nella sua duplicità spagnolo-italiano H-ombre-s: ombre tra uomini (interpretiamo noi) o uomini-ombra. E qui occorre tornare al principio di soaltà, secondo il neologismo dell’autore, fusione di ‘sogno e realtà’. Ciò dispone a una nuova visione del mondo, una chiave introduttiva diversa, comunque originale. Scrittura concettualmente densa, con svariati riferimenti che danno la misura di una conoscenza fuori del comune, sorretta dalla fantasia e da un pensiero religioso sempre acuto e penetrante.

Luciano Nanni



Gentilissimo Guglielmo Peralta,
ho letto in questi giorni il suo H-Ombre-S datomi dal comune amico Sandro Gros-Pietro.
L’ho trovato molto interessante e mi ha affascinato per la ricchezza delle invenzioni, per la scrittura scorrevole e densa, per un qualcosa che mi rimanda a Pirandello, ma anche a Jorge Luis Borges. Un vero viaggio lungo le strade della letteratura per incontrare i grandi autori e i grandi personaggi.
Non sombras, ma hombres e quindi, veri protagonisti della storia dell’umanità. Essi hanno arricchito la nostra mente, ci hanno insegnato le astuzie del vivere e quelle virtù che fanno di una persona un uomo. Ci hanno accompagnato lungo le vie del nostro essere creature della Parola.
Uomini e donne che abbiamo amato o respinto, a volte odiato. Amici con cui abbiamo condiviso esperienze, sopportato dolori e sconfitte, gioito per le vittorie del pensiero e del cuore, apprezzato la complessità dell’esistenza, ascoltato il vagito della vita che nasce, il rantolo della vita che muore.
In un pirotecnico gioco letterario Lei ha coperto la realtà con i veli della fantasia, creando un’opera originale e profonda e facendo vivere il nostro presente nel presente di quegli autori le cui opere ancora ci affascinano e ci sorprendono e, per questo, ancora le amiamo. Grazie a Lei sono entrato in quel paradiso che Borges immaginava pieni di libri. Complimenti.
Cordiali saluti
Giovanni Chiellino



Giorgio Bárberi Squarotti
Monforte d'Alba, 3 agosto 2011

Caro Peralta, ricevo e leggo nel mio paese dove trascorro l'intera estate, il Suo libro geniale. E' un'opera che ha reinventato il genere romanzesco in modo mirabile, almeno in Italia ridottosi a ripetizione, banalità, lingua commerciale, assenza di vita e d'anima. Ella è riuscito a dare vita e anima alle creazioni della letteratura e, di conseguenza, ha offerto la più alta verità della parola e della storia e dei tempi. Ammiro con la vivissima speranza di qualche occasione d'incontro.
Grazie! Con i più vivi auguri e saluti




 Ho letto "Hombres" di Guglielmo Peralta. libro coltissimo, i cui personaggi sono i personaggi dei classici della narrativa, prima di tutto K., che suggerisce dell'inquietudine dei libri incompiuti come destini sospesi. ci troviamo nel "Castello" di Kafka e ci è dato incontrare Amleto e don Chisciotte, Sonja, Euridice... ed anche Pinocchio. un volume che intreccia filosofia e storia della letteratura, denso di riflessioni e visioni. una lettura poderosa, sofisticata ed impegnata.
Tjuna Notarbartolo



(…) I Personaggi, in questo romanzo di Guglielmo Peralta, sono una scala per giungere a quell’Empireo cui tutti aspiriamo o aspireremmo. E qui è il potere, in fondo, salvifico della letteratura, non soltanto puramente contemplativo, estetico, del vedere e del sentire, ma anche del non vedere perché è la coscienza, perché è con gli occhi chiusi che si ritrova dentro di noi quel dio, quella bellezza a cui tutti aspiriamo. Religione, etica, letteratura diventano quindi un percorso di questo testo, complesso, ricchissimo di spunti, di riflessioni, di meditazioni, di approfondimenti, per cui non si può leggere assolutamente una sola volta. È, in qualche modo, una Divina Commedia in prosa, potremmo dire, dei nostri tempi fra l’altro, perché è un’ampia visione del mondo, della vita, del posto degli uomini e della letteratura. La soaltà si specifica finalmente come una visione parziale. Un personaggio soltanto, Don Chisciotte, fa presente che cos’è la soaltà e come funziona. Gli altri poi finiscono col capire, col condividere, ma non sono portatori di questo punto di vista, lo accettano, finiscono per condividerlo perché capiscono che loro sono dentro il sogno, dentro la letteratura e che, quindi, il loro esistere dipende da quello, ma fondamentalmente è un modo di vedere anche parziale, che però tende a dilatarsi, a diventare forma unica della visione e del modo di salire all’Empireo.
Salvo Zarcone


     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
    Scrivere la recensione di questo libro non è stata un’azione immediata, così presa dalla sua atmosfera. Qual è la soglia – ammesso che vi sia! – tra sogno e realtà? Tra mondo onirico-illusorio e vita concreta? Non è casuale che il titolo focalizzi l’attenzione sulla parola ombre, ma si gioca anche con lo spagnolo: hombres vuol dire uomini. Insomma, uomini-ombre sono i personaggi che affollano questo romanzo. Ancor meno definibile il protagonista K., che sovrappone (per buona parte della storia) la propria identità con quella di un altro: Joseph K. Ai più attenti non sarà sfuggito il rimando kafkiano. In realtà H-ombre-s pullula di rinvii letterari.
Il Castello, topos per eccellenza della letteratura, è luogo d’incontro dei personaggi più vari di tutti i tempi, che K. incontra man mano che si addentra nei suoi meandri. Rivivono Beatrice, Hamlet, i Sei Personaggi in cerca di autore, Pinocchio, i fratelli Karamazov, solo per citarne alcuni, tutti lì a interrogarsi sul senso della vita: la loro immortale ma illusoria, perché creata dagli autori di cui sono proiezioni, e quella vera, fuori dai libri, così precaria eppure così attraente, come il canto delle sirene. E dal desiderio di fondere sogno e realtà, l’autore dà vita alla soaltà.
Le pagine scorrono senza farci caso; i dubbi si intrecciano alle speranze; il richiamo alla vita innesca azioni intrepide. H-ombre-s è una summa, un’enciclopedia, una sfida per un critico a cui, tuttavia, Peralta va incontro con apposite note.
Questo romanzo ti cattura, ti incuriosisce, ti appassiona, ti stuzzica, ma soprattutto ti suggestiona con l’evocazione di luoghi tra l’antico e il magico (il castello, la torre, il salone degli specchi) e immagini sacre (l’albero della vita, il decimo cielo). E giunto alla fine, non hai voglia di lasciare tutti gli amici conosciuti, ma adesso sai dove cercare ognuno di loro.
 
Marilena Genovese
 
Introdotto da una citazione in esergo tratta dal Castello di Kafka, questo romanzo deve molto al celebre scrittore praghese, menzionato più volte apertamente sino all’ultima pagina. A lui si ispira lo stesso nome del personaggio principale, denominato per l’appunto K, il quale, credendosi la reincarnazione di Josef, protagonista del Processo, risponde a una chiamata che lo porterà al “Castello” a esercitare «la sua professione di agrimensore nelle terre del contado».
È da questo momento che comincia la sua avventura che andrà definendosi, pagina dopo pagina, incontro dopo incontro, come una straordinaria allegoria della scrittura.
Ad attenderlo nel luogo convenuto vi sono infatti tutti quei personaggi che hanno alimentato la nostra fantasia e arricchito con la loro “presenza” la cultura occidentale: don Chisciotte, Amleto, Euridice, Orfeo, Beatrice, Odisseo e molti altri ancora: personaggi che l’autore definisce con un gioco linguistico italiano e spagnolo “H-ombre-s” (uomini e ombre allo stesso tempo).
Ecco cosa Beatrice afferma a tale proposito: «… io sono umana, perché vissi tra gli uomini e perché sono un Personaggio!… E dunque, pure voi siete umani, anche se non appartenete come me, al genere umano. Nella nostra pallida vita di attanti si riflette la vita vera degli uomini (…) Con i loro sogni respira in noi l’umana natura (…)».
Nel loro essere e non essere essi appartengono pertanto a un territorio che si colloca tra realtà e fantasia, e sono in virtù della loro stessa esistenza voluta dal loro Creatore, espressioni artistiche che sperimentano dentro di sé le passioni e gli umori vissuti dagli umani.
Tutt’altro, dunque, che mere figure di intrattenimento, questi personaggi rappresentano anche il punto di partenza di una riflessione filosofica sull’arte e più in generale sull’attività creativa umana, da parte del Peralta il quale, attraverso una narrazione scorrevole, affatto pedante, riesce nell’intento di far compiere a ogni lettore un viaggio singolare nel vasto e variegato universo della conoscenza di ogni luogo e tempo.

Domenico Defelice
Pomezia, 24 gennaio 2012

Opera complessa, difficile da inquadrare in una paginetta recensiva. Difficile anche per le tante tematiche che il romanzo solleva, impostato com’è sulla “Soaltà”, neologismo - questo - coniato dallo stesso autore e che racchiude e descrive tutta una filosofia. “La soaltà - confessa Guglielmo Peralta a Susanna de Candia, in una intervista per il sito “Temperamente” -, più che indicare una dimensione tra sogno e realtà, è la loro identità, la sintesi perfetta tra mondo del sogno o della visione, e visione del mondo, ossia: tra realtà interiore, in cui si rappresenta il mondo del sogno, e la realtà esteriore, in cui il sogno acquista un corpo e, dunque, visibilità”.
H-ombre-s ha come protagonisti personaggi creati, nei libri, dalla fantasia degli uomini; creature divenute nel tempo talmente importanti e universalmente famose da acquistare fama e concretezza di esseri veri.
Alla scenografia di opere immortali si ispira l’impianto del romanzo. Il Castello, per esempio, richiama il monte nella Divina Commedia e, la riunione conviviale, il Decameron, con la differenza che, nella creazione del Boccaccio, la compagnia era limitata, dedita al gioco e alla spensieratezza, a raccontar novelle, mentre in Peralta i soggetti riuniti sono tantissimi e i temi trattati ardui e di gran peso, come quello di una ricerca e di una verità tramate dalla fede.
I protagonisti, anche se non uomini veri - ai quali essi sembra vogliano aspirare -, non sono neppure fantasmi. Hanno ragionamenti e movenze di creature in quanto proiezioni degli stessi autori, gli dei che hanno dato loro la vita, e perché la letteratura, giocando su utopia e sogno, spesso anticipa la realtà. Ciò che secoli fa poteva essere solo fantascienza o bizzarria (volare, comunicare, Internet, calpestare la luna...), oggi non è forse vissuta quotidianità?
Uno dei convocati al Castello è l’ “agrimensore” K., Personaggio protagonista in “Il Castello” di Kafka, presente nel romanzo dall’inizio alla fine (quasi scompare nella parte centrale); ma gli interventi maggiori sono di altri protagonisti di opere famose: di Cervantes - per esempio -, Dante, Pirandello, Collodi, Shakespeare, Ovidio, Omero ...; insomma, dei più grandi autori d’ogni tempo.
H-Ombre-s è un affresco straordinario - diviso in tre parti: Nel Castello, Sul Ponte, La Notte -, che si dipana “Di realtà in realtà, di sogno in sogno”, nel quale “Terreno fertile (...) è il dubbio”. (18). La lettura e la narrazione sono il modo migliore per saldare il fantastico alla vita reale e il veicolo più indicato sono le figure create dai grandi autori. Sentirle esprimersi, dissertare, immaginarle vive e riunite a convegno, è fare nostre le loro tesi, le tante problematiche, le visioni diverse nel concepire la vita. Sono personaggi nati “dal grembo del sogno” (26), “Anime perse nel silenzio degli dei” (28), “creature di un dio minore” (l’uomo), inferiori, quindi, ma nelle quali ugualmente “splende la luce della Poesia e la vita si fa imitazione” (28). Beatrice a questi personaggi dà la certezza della loro esistenza, li sveglia “dalla notte fonda”, li solleva “fino alla soglia della coscienza” (29). Tutto ciò che di positivo e di negativo hanno è frutto degli uomini che lo hanno trasmesso loro “attraverso i sogni” (48), compresa l’ansia e il desiderio di andare nel mondo, di essere come gli uomini in tutto e per tutto.
Il regno di queste Ombre è simile al mondo ove hanno vissuto i loro dei creatori e - ripetiamo - simile a molti uomini sono le stesse Ombre, ognuna delle quali non ha una sua granitica, radicata idea, ma si lascia momentaneamente convincere da quella delle altre, per subito poi cambiare a seconda degli interventi: di Pinocchio, di Amleto, di Euridice, di Sonja... E’ tutto un fluttuare continuo di luci mentali che si accendono e si spengono, un comportamento ondivago. Così, all’inizio, quasi tutte son favorevoli alla fuga dal Castello, ma, una volta sul Ponte, si fanno convincere a rientrare nella grande Biblioteca, riconoscendo che il Castello è “il luogo del sogno” (82) e quindi il più idoneo alla loro esistenza. Il Castello è un libro, è la “labirintica prigione di carta” (83). Comprendono che “Rinnegare gli dei [cioè, gli uomini], ..., significa rinnegare i libri” e loro stesse (115). Quel che, insomma, agognavano ottenere con la fuga “non era altro che una duplicazione della vita umana” (141). Le Ombre sono un sogno, ma anche l’uomo stesso che le ha create è un sogno, il più grande: quello di Dio.
 
 
 
Giuseppe La Russa
 26 novembre 2012

 «O voi che cercate il sommo bene nella profondità della scienza, nel tumulto dell’azione, nell’oscurità del passato, nel labirinto del futuro, nelle fosse e sopra le stelle, sapete voi il suo nome? Il suo nome è bellezza»!

Così scriveva Friedrich Hölderlin, e la frase potrebbe in parte racchiudere il senso dell’ultima creazione di Guglielmo Peralta, H-ombre-s. Il condizionale è d’obbligo, poiché una recensione, una critica, un riassunto della suddetta opera dello scrittore palermitano, devono muoversi su uno spazio oscillante, diafano, così come su un terreno tutt’altro che stabile agiscono i personaggi di questo particolare romanzo. Procedere con un criterio univoco, fisso ed immutabile, significa forse non farci raggiungere il quid delle azioni raccontate che si trovano ambientate all’interno di una superficie contesa dalla letteratura e dalla filosofia, in uno spazio che si sottrae alla tirannia del Tempo, che è un non luogo e che è nel sogno.
Svariati sono i temi trattati nello spazio di 180 pagine, diversi gli ambiti sfiorati dai personaggi che ravvivano il racconto, dal tema “infinito” dell’Amore, dalle opposizioni pesantezza-leggerezza, anima-corpo, materialità-spiritualità, immanenza-trascendenza, al tema della Bellezza, il tutto in una scenografica allegoria dell’Arte, intesa, in ultima istanza, come via di liberazione dal dolore, per dirla con Schopenhauer.
Ma proviamo a procedere con maggior ordine possibile. La trama del racconto può riassumersi, forse, in poche parole: personaggi “estrapolati” dai classici della letteratura mondiale e dal mito (a colorare il testo intervengono, tra gli altri, Odisseo, Euridice, Beatrice, Pinocchio, i Sei Personaggi in cerca d’autore pirandelliani) vivono in una dimensione che è a metà tra il sogno e la realtà, in un luogo spazio-temporale non perfettamente definibile che Peralta definisce, con un suo neologismo, Soaltà, e tentano la fuga verso la vita vera, quella degli uomini reali, nonostante sia da tutti vista come «troppo carica di nefandezze e colpe mondane». Questi personaggi non sono altro che ombre (l’autore utilizza il sostantivo Hombres, declinato in questa maniera, H-ombre-, gioco linguistico italo spagnolo tra ‘uomini’ ed ‘ombre’) che sperano di vivere la realtà vitale di chi li ha creati, dei loro dei, ossia degli autori che li hanno pensati e che hanno raccontato le loro storie sulla pagina; sono ombre e la loro vita appartiene al sogno e «il sogno è la realtà di cui consistiamo», afferma Euridice. Nella loro aspirazione, però, alla fuga, si manifesta una delle opposizioni su cui il racconto si poggia, quella, per l’appunto, tra materialità e spiritualità, immanenza e trascendenza, dicevamo: la vita vera è sì guardata come il luogo della pesantezza, del fardello continuo, a differenza della leggerezza e spiritualità in cui “vivono” le ombre, ma a quella materialità i personaggi non possono che aspirare, non possono che tendere, mantenendo così fede all’umanità di cui i loro autori li hanno rivestiti nelle avventure libresche.
Diversi i temi toccati, dicevamo, nel corso del racconto, in cui ogni pagina è estremamente densa, piena, in cui ogni foglio, ogni parola sono cariche di un significato generale, ogni termine possiede in sé una carica immaginifica ed esplosiva che nel tutto si scioglie: è questa la cifra stilistica che sottende al libro di Peralta, che nelle strategie lessicali trova uno specchio perfetto della storia raccontata. Il perché di questa considerazione è presto detto e risiede nella totale fiducia sulla Parola (che Gorgia definiva un «potente sovrano») e nell’Arte, madre della Bellezza.
Italo Calvino afferma come la letteratura non potrà mai morire, mai cesserà di esistere, perché fino a quando ci sarà vita, essa avrà il magico potere di raccontarla. Questa la fede di Peralta che trasuda da ogni singola pagina.
Ma come il dettaglio si sciolga nell’insieme, nella forma – dicevamo – e nella trama, lo scopriamo nella questua dei personaggi, nel loro tentativo di fuga “alla vita”, nella risposta che infine troveranno. Hölderlin, che inizialmente avevamo citato, ci ammaestra nel suo romanzo, Iperione, come la vita autentica, quella degli dei, consista nell’essere, appunto, uno con il tutto e che questo tutto, che è Uno, è l’infinito che si rivela nell’uomo che per raggiungerlo deve affidarsi alla Bellezza.
Ecco la risposta, ecco il particolare che trova sede nell’universale, in nome della Bellezza e dell’Amore, altro tema portante del racconto e che prende corpo attraverso le parole di Beatrice e che ricalcano ciò che Dante di quella forza cosmica aveva teorizzato. Nelle parole della donna salvifica Amore è reciprocità, affinità, forza che all’uomo «fa abbandonare la sua torre d’avorio confermandolo unico nel riconoscimento e nell’accoglienza dell’altro»: concetto, questo, che quasi in maniera naturale rimanda a Francesco di Sales e al suo Trattato dell’Amor di Dio, in cui la potenza dell’Amore stesso si manifesta nella convenienza, nel “venire insieme”, nel senso che «come l’uomo non può essere portato a perfezione se non dalla divina Bontà, così la divina Bontà non può veramente esercitare così bene la sua perfezione al di fuori di sé se non attraverso la nostra umanità: l’una ha grande bisogno e grande capacità di ricevere del bene, e l’altra ha una grande abbondanza e grande inclinazione a donarlo».
È questo l’iter che Beatrice consiglia, la risposta che si dà Sonja, personaggio chiave del racconto ed estrapolato da Delitto e castigo di Dostoevskij: ogni personaggio troverà la propria risposta nella stesse sede in cui si trova, proprio perché il singolo è diventato tutto, è diventato insieme. La loro forza e la loro vittoria stanno nel donare l’immortalità a chi li ha pensati, a chi li ha generati, come li avverte con accorate parole il ciclope Polifemo, sul finire del racconto: «Voi siete spirito e figli dello spirito, generati e non creati dalla Bellezza, da questa Virtù immacolata».
Ogni personaggio si illumina nella consapevolezza di essere luce nel mondo, «perché gli esseri umani hanno bisogno di storie, di favole, di poesia, e noi siamo quel pane che si moltiplica e che essi ricevono per la ricchezza dello spirito», perché, urlano a gran voce i personaggi ombra – e con essi la Letteratura, la Poesia, l’Arte – «c’è verità nella Bellezza» e «c’è Bellezza nei libri!... E i libri, non sono forse il corpo con cui abbracciamo il mondo?...».
Con i libri e per mezzo di essi l’uomo può ancora trovare spazio nella soaltà dei personaggi che legge, lì restare, sciogliersi con essi, diventare parte di un tutto, un tutto, direbbe Hölderlin, il cui nome è Bellezza.
 

 
 
 
 
 

Giuseppe La Russa
 
 
Il romanzo H-Ombre-S, del palermitano Guglielmo Peralta, racconta una storia certamente particolare, a tratti sfuggente, incorporea, diafana: personaggi della letteratura mondiale (tra gli altri, Odisseo, Beatrice, la Sonja di Dostoevskij, Pinocchio ecc..), imprigionati in un luogo che è di fatto un non-luogo, quello della fantasia dei loro autori e che Peralta, con suo neologismo, definisce Soaltà, tentano il salto verso la vita vera, quella degli uomini reali, verso la realtà concreta e tangibile, nonostante sia avvertita da tutti come «troppo carica di nefandezze e colpe mondane». Il motivo per cui devono tentare questa fuga è l’umanità di cui essi stessi sono partecipi, poiché i loro autori, coloro che li hanno creati, li hanno rivestiti di ogni residuo e frammento che l’essere umano trascina inevitabilmente con sé. Dunque, un romanzo che nell’opposizione sogno-realtà (è questo lo scioglimento del termine Soaltà) vede la sua matrice, la sua colonna portante: da questa si dipanano diverse opposizioni, pesantezza-leggerezza, materialità-spiritualità, immanenza-trascendenza che, in ultima analisi, a quella Soaltà fanno capo. Dunque, già nell’accenno della trama e della sua struttura dicotomica, si può notare come ogni pagina si muova su un equilibrio precario, a volte inconsistente, a volte difficile da stabilire? Come, allora, può reggersi in piedi una narrazione lunga 180 pagine? Ci viene in soccorso Italo Calvino con una delle sue Lezioni Americane, quella sull’esattezza, di cui si riportano brevissimi stralci di certo illuminanti: «Esattezza vuol dire per me», scrive l’autore di Palomar, «soprattutto tre cose: 1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2) l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili, icastiche; 3) un linguaggio il più preciso possibile. Perché sento il bisogno di difendere dei valori che a molti potranno sembrare ovvi? Credo che la mia prima spinta venga da una mia ipersensibilità o allergia: mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile».
Ora, in Peralta, un disegno dell’opera ben definito e calcolato è di necessità vitale, visto quell’equilibrio precario di cui si diceva: senza di esso il romanzo non potrebbe tenersi e in piedi, mentre lo sguardo dall’alto dell’autore consente alla pagina di scorrere in maniera lineare e senza fuoriuscite. Inoltre, ci troviamo di fronte ad un cultore della parola, ad un autore che ha fede nella sua capacità evocativa, nella sua possibilità eterna di generare, di partorire segni e significati: ecco perché la scelta di ogni significante non può essere lasciata al caso. Ogni termine ha con sé un significato innanzitutto particolare che, vedremo, sarà, in virtù di ciò, capace di aprirsi all’universale. Così ogni pagina: Peralta carica ogni foglio di un significato che appare ultimo, definitivo, massimamente pregnante, ad ogni voltar di pagina sembra svelare la fine, salvo poi tornare indietro; come ogni parola anche ogni pagina è portatrice di una individualità di significato che diventerà un Tutto. Dunque, si può bene vedere, nell’attenzione calviniana al linguaggio, possiamo intravedere già la cifra stilistica che sottende al libro di Peralta: infatti la forma che lo scrittore sceglie per il suo romanzo è perfetto specchio della storia raccontata, di una storia che si muove tra il concreto delle parole e il diafano, l’incorporeo delle immagini e situazioni.
Ma torniamo un attimo a Calvino e alla sua apologia dell’esattezza. Come contraddittore ideale della sua tesi sceglie, in un primo momento, Giacomo Leopardi, per cui, com’è noto, più la parola è vaga ed imprecisa, più ci si avvicina alla poesia; ma, ci fa notare Calvino, dopo l’elenco leopardiano (estrapolato dallo Zibaldone) di situazioni  propizie allo stato d’animo “indefinito”, quello che il poeta recanatese richiede da noi per farci gustare la bellezza dell’indeterminato è «una attenzione estremamente precisa e meticolosa che egli esige nella composizione d’ogni immagine, nella definizione dei dettagli. […] Dunque Leopardi, che avevo scelto come contraddittore ideale della mia apologia dell’esattezza, si rivela un decisivo testimone a favore. Il poeta del vago può essere solo il poeta della precisione, che sa cogliere la sensazione più sottile con occhio, orecchio, mano pronti e sicuri». E ancora: «La poesia dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, così come la poesia del nulla nascono da un poeta che non ha dubbi sulla fisicità del mondo».
In particolar modo quest’ultima frase ci appare estremamente densa e capace di tracciare la via da seguire nell’analisi del romanzo peraltiano: se l’autore di H – ombre – s nutrisse  un solo dubbio sulla realtà che fa da retroterra e retroscena all’incorporea storia raccontata, davvero, come si diceva prima, la narrazione non potrebbe reggersi in piedi. Dunque una materialità che è premessa sostanziale e necessaria e che viene testimoniata da questa attenzione meticolosa al linguaggio, una premessa che può, in tal modo, raccontare una storia fatta di corpi-non corpi, luoghi-non luoghi: uno stile, si vede, specchio perfetto delle vicende del romanzo, perché come i personaggi si muovono in questo spazio che è tra sogno e realtà, fra materiale e immateriale, immanente e trascendente, così accade anche con il linguaggio adoperato.
Svariati sono i temi trattati, diversi gli ambiti sfiorati dai personaggi che ravvivano il racconto, dal tema “infinito” dell’Amore, dalle opposizioni pesantezza-leggerezza, anima-corpo, materialità-spiritualità, immanenza-trascendenza, ma si tratta, possiamo constatare, di opposizioni che sembrano partire da una stessa matrice, quella che abbiamo già anticipato e che è traducibile nel termine Soaltà. Il punto essenziale qual è, allora? Il punto d’approdo. Se le opposizioni che reggono il testo sono queste, se la fuga dei personaggi risulta a più riprese difficile, quale sarà lo scioglimento finale e che significato avrà?
Ѐ nella loro aspirazione alla fuga, però, che troveremo la risposta e l’esito finali: la vita vera è sì guardata come il luogo della pesantezza, del fardello continuo, a differenza della leggerezza e spiritualità in cui “vivono” le ombre, ma a quella materialità i personaggi non possono che aspirare, non possono che tendere, mantenendo così fede all’umanità di cui i loro autori li hanno rivestiti nelle avventure libresche. In uno stralcio, a p. 49, si legge: «La pesantezza, avvertita attraverso gli occhi spalancati sulla “realtà” li fa sentire umani, troppo umani: carichi delle nefandezze e delle colpe mondane; attratti dalle passioni, dagli agi, dalle trasgressioni, dal potere costituito in ogni sua forma, dai beni materiali, ma protesi anche verso le alte vette dello spirito. […] Ma nella lotta tra la leggerezza e la pesantezza, tra lo spirito e la materia, prevalse quel desiderio di fuga, la voglia di essere umani!»
Ma appare chiaro che quella di Peralta sia un’allegoria dell’Arte, in generale, della scrittura in particolare (ecco il perché del riferimento iniziale a Calvino). Parlare di un testo meta-letterario non mi sembra poi così sbagliato, poiché attraverso la letteratura si parla di essa e lo si fa con la bocca dei personaggi che alla letteratura stessa hanno dato vita. Assolutamente illuminante in tal senso è un altro passo del romanzo, a p. 37. Parla Odisseo, rivolgendosi a Pinocchio, con queste parole: «Caro Pinocchio, a quest’avventura ti confesso di sentirmi impreparato, perché non vedo, fuori di qui, terra d’approdo! Noi non siamo nati Ombre per inseguire la vita ma per rappresentarla agli uomini come in uno specchio, affinché essi riconoscendosi, attraverso di noi, falsi bruti e bugiardi, si prodigassero “per seguir virtute e canoscenza” e mettersi in cammino verso la verità, che non è certamente quella che io “estorsi” alle Sirene e che, essendone dubbioso, andai a cercare oltre le Colonne perdendo così la mia vita. […]In questa verità più profonda dobbiamo prendere posto, non con la fuga, ma con la ricerca, la quale non allontana mai da casa il viandante e gli assicura sempre di ritornarvi»! Questo è un pezzo che troviamo ad inizio romanzo, ma che già velatamente anticipa il finale: Peralta ci fa pregustare il quid delle azioni narrate, ogni volta con un elemento in più, ma non scioglie mai del tutto le riserve. Fa crescere così la suspense, fa accrescere in noi il desiderio, la smania di vedere. Sottolineiamo e ricordiamo questa frase: «La ricerca non allontana mai da casa il viandante e gli assicura sempre di ritornarvi» (nostra la sottolineatura): è un concetto chiave del racconto, una fondamentale parentesi che lasciamo volutamente aperta e che riprenderemo fra poco.
Un elemento che, mi viene in mente nel parlare del testo di Peralta, è il ‘Mistero’. In che senso?
A p. 174 del romanzo si legge: «Mistero è la Bellezza che si concede all’ascolto e nasconde il suo volto nello splendore delle forme infinite della natura e dell’umana creazione. Cari personaggi, voi pure siete un mistero».
Noberto Bobbio, pensatore morto nel 2004 e che sempre si definì lontano dalla religione, scriveva come ogni essere umano si sente immerso nel mistero ed è questa la conditio sine qua non per la spiritualità, che poi può configurarsi come religione, come filosofia o magari entrambe le cose. Ora, un autore, teologo molto noto, Vito Mancuso, scrive come il mistero sia una condizione esistenziale che riguarda la totalità della vita, che ci avvolge dal di dentro. Inoltre, scrive una cosa molto bella che, a mio modo di vedere, racchiude bene la condizione dei Personaggi peraltiani: «La percezione del mistero della vita si dà come inquietudine che attraversa l’esistenza e che ci fa sentire che non siamo dove dovremmo essere, e al contempo come meraviglia che pure attraversa l’esistenza e che ci fa sentire che siamo dove dovremmo essere». Le ombre che popolano il romanzo di Peralta sono totalmente immerse nel mistero, sono il frutto e il risultato di questa armonia e disarmonia, è su questa condizione dicotomica che si gioca tutto l’iter che seguono.
Dunque, allegoria dell’arte certamente, ma attraverso di essa Peralta filosofeggia sulla vita nostra, di noi che ombre non siamo e che questa opposizione non solo l’avvertiamo, ma ne facciamo l’essenza della nostra percezione del mistero che, secondo quanto scrive Mancuso, è il diapason della nostra spiritualità. Dunque un testo che si apre davvero alla riflessione, che sembra immateriale ed incorporeo e non fa altro che parlare di noi, della nostra quotidianità.
E in questa meraviglia, scrive Mancuso, che ci fa sentire che “siamo dove dovremmo essere” sta lo scioglimento del nodo, l’exitus delle azioni raccontate in H-ombre-s. Il punto non sta nel dover cercare necessariamente un luogo verso cui migrare, ma il trovare il Senso della propria vita con le azioni che si compiono. Ѐ questo, ne sono certo, un insegnamento di vita. Uno studioso e ricercatore palermitano, Tommaso Romano, direttore della casa editrice Thule, scrive: «Il Senso del Senso è il Senso che ognuno riesce a dare alla propria esistenza». Trovando il Senso della propria vita, puoi trovarti ovunque e non sarai mai in esilio. Potrai invece essere proprio dove vuoi, ma se non dai e non trovi il senso, sarai sempre esule da te stesso. Ѐ questa la consapevolezza a cui arrivano i Personaggi del libro di Peralta e lo fanno attraverso e grazie le parole di Sonja, personaggio di Dostoevskij: «Questo piccolo liocorno non è qui per ricordarci la nostra fuga, ma per inverare e mostrarci con la sua sacra figura le ragioni della nostra umbratile esistenza […] Come Prometeo, noi doniamo il fuoco agli uomini, portiamo la luce nel mondo. E per questa luce noi restiamo incatenati e patiamo ogni genere di sofferenze. Ma dal dolore che ci consuma nasce negli uomini la gioia che ci rinnova e ci riproduce. Perché gli umani hanno bisogno di storie, di favole, di poesia, e noi siamo quel pane che si moltiplica e che essi ricevono per la ricchezza dello spirito»; ed è questo il senso della ricerca, di quella parentesi che avevamo aperto con le parole di Odisseo: nella ricerca del Mistero, nel “desiderio di penetrarlo”, scriverebbe Machado, sta IL quid.
Una consapevolezza che avviene nel nome della Bellezza. Ma non è una bellezza, quella di Peralta, meramente estetica, ma anche e soprattutto umana, spirituale. Bellezza è Amore, per Peralta, tanto che una delle più forti teorizzazioni presenti nel testo è proprio quella sull’Amore, in nome del quale la ricerca può avere senso. Si dice, ad esempio a p. 78 come «Non c’è vero ritorno senza amore e non c’è salvezza per chi, in solitudine, si salva»! In nome di questa bellezza, dunque, il dettaglio si scioglie nell’insieme, l’uno trova sede nel tutto, il particolare nell’universale. A livello stilistico abbiamo detto che ogni parola, in Peralta, è estremamente icastica, immaginifica, portatrice di un significato generale: così ogni pagina, incredibilmente densa, anch’essa portatrice di un messaggio universale. Dunque, così come nello stile e nella forma, anche a livello contenutistico succede la stessa cosa: ogni personaggio ha in sé un significato particolare, è portatore di un senso individuale che, però, si scioglie nell’Universale concetto di Bellezza e di Amore, inteso proprio come unione, come insieme.. La parola diventa universale, come si può leggere sul finire del romanzo, a p. 174: «Ma la parola, quella che si veste d’infinito e fa gli uomini immensi, quella ribattezzata nella sacra luce del sogno e che si fa peregrina e passionaria sulla via della Bellezza e s’offre fino alla croce, questa parola ineffabile e mai taciuta, se per avventura o per grazia liberasse il suo canto dentro la voce non solo dei poeti ma dell’intero genere umano, allora il mondo sarebbe un vero Poema, una Divina Commedia che prosciugherebbe la nostra valle di lacrime»
È questo l’iter che Beatrice consiglia, la risposta che si dà Sonja, personaggio chiave del racconto ed estrapolato da Delitto e castigo di Dostoevskij: ogni personaggio troverà la propria risposta nella stesse sede in cui si trova, proprio perché il singolo è diventato tutto, è diventato insieme. La loro forza e la loro vittoria stanno nel donare l’immortalità a chi li ha pensati, a chi li ha generati, come li avverte con accorate parole il ciclope Polifemo, sul finire del racconto: «Voi siete spirito e figli dello spirito, generati e non creati dalla Bellezza, da questa Virtù immacolata».
Ogni personaggio si illumina nella consapevolezza di essere luce nel mondo, «perché gli esseri umani hanno bisogno di storie, di favole, di poesia, e noi siamo quel pane che si moltiplica e che essi ricevono per la ricchezza dello spirito». Con i libri e per mezzo di essi l’uomo può ancora trovare spazio nella soaltà dei personaggi che legge, lì restare, sciogliersi con essi, diventare parte di un tutto, un tutto, il cui nome è Bellezza.
Per concludere ciclicamente con Calvino e una sua frase celebre tratta da Le città invisibili, «D’ una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda».

 

 
 
 
Franca Alaimo
29 ottobre 2011
 
Ci sono delle opere letterarie che si sottraggono ad una precisa definizione e H-ombre-s di Guglielmo Peralta è una di queste.
Intanto vi abbonda più la riflessione che l’azione, più il monologo che il dialogo, così che potrebbe definirsi in qualche modo un saggio romanzato sulla funzione e la necessità della letteratura e su altri aspetti che intorno ad essa da sempre si dibattono: Perché si scrivono opere letterarie? E’ più piena e completa la vita letteraria o quella che viviamo? Qual è il rapporto fra l’idea e la scrittura? Tra l’autore e i personaggi? Tra l’autore e il lettore?
Potrebbe, questo romanzo, essere pure definito un’autobiografia o, meglio una biobibliografia romanzata, visto che Peralta, attraverso esso, rende omaggio agli autori che più ha amato, mostrando al lettore in modo assai singolare la propria biblioteca e il proprio percorso di formazione; e potrebbe, ancora, essere pensato come un trattato di metafisica romanzata, poiché, attraverso i monologhi e i dialoghi dei personaggi messi in scena, egli affronta importanti quesiti etici e scioglie un inno alla grandezza del Creatore ed ai suoi doni, tra cui quello della scrittura, grazie alla quale lo scrittore può porglisi quasi a fianco in qualità di inventore di mondi paralleli. Ma, soprattutto, H-ombre-s a me pare la teatralizzazione della filosofia elaborata da Peralta, nota come soaltà, intorno alla quale egli ha pure scritto un manifesto vero e proprio e che ha dato nome ad una pregevole rivista edita a Palermo per più anni. E, a proposito di teatralizzazione, “H-ombre-s” presenta caratteristiche più di opera teatrale che di romanzo, per cui ci si augurerebbe di vederlo rappresentato sul palcoscenico di un teatro.
Forse, a ben riflettere, H-ombre-s costituisce un insieme di tutte queste cose e, forse, qualcos’altro in più. Insomma, il romanzo H-ombre-s di Peralta è davvero un’opera originale, direi unica nella storia della letteratura contemporanea.
Protagonisti di questo romanzo sono alcuni personaggi della letteratura di tutti i tempi, che cercano di autogiustificare la loro esistenza dandosi una dimensione più certa di quella di icone di carta, desiderosi di una vera vita, in modo che, come ipotizzano, “la morte, quella ricevuta insieme con l’immortalità, quella subita, per incanto , da occhi estranei” possa essere “espulsa dai loro corpi di nebbia”, ed essi diventino capaci di accogliere “come autentica compagna e senza remore, la morte mortale” salendo “dal regno delle ombre all’impareggiabile regno della luce”.
Il luogo in cui si svolge la vicenda è il Castello dell’agrimensore K., con la sua altissima torre, la biblioteca, la valle, un fiume lontano, un ponte ( che rappresenta il passaggio dalla vita sognata per i personaggi alla vita vera del mondo) immersi in una notte senza fine, allucinata, tra incubo e struggente finzione.
La struttura del romanzo appare come il risultato di una personalissima elaborazione di elementi tratti da diversi autori della letteratura: l’atmosfera ricorda quella del Purgatorio dantesco, poiché tutti i personaggi sembrano in attesa della beatitudine promessa, sospesi fra il ricordo della propria imperfetta vita letteraria e il desiderio della visione suprema che li affiancherebbe agli essere umani. Simbolo di quest’attesa, come dicevo prima, è il ponte che sovrasta la valle e resta a lungo lo scenario di micro-eventi, emozioni e perplessità, fra ripetuti indietreggiamenti e piccoli avanzamenti che sembrano reciprocamente annullarsi, come le provvisorie decisioni sul da farsi via via dibattute. A Dante rimanda pure l’uso abbondante dell’allegoria; per esempio, la Torre rappresenta, come svela Beatrice, la misura incolmabile delle idee. Ogni piano è un cielo in cui brillano le idee generatrici delle opere. La Torre cresce e s’infinita di nuove idee per emanazione divina attraverso gli autori. Questa torre, non si può fare a meno di notarlo, è l’esatto capovolgimento di quella di Babele, torre del caos e della disgregazione verbale, mentre qui il decimo cielo rappresenta la Parola di Dio, dalla quale la parola umana discende.
La personalità, invece, e gli atteggiamenti psicologici dei personaggi ricalcano quella sottigliezza intellettuale, quel complesso e sofistico ragionare propri dei personaggi pirandelliani e quella drammaticità di sentimenti estremi che caratterizza gli eroi tragici di Shakespeare.
I dialoghi a tesi fra i personaggi rimandano, invece, a quelli del filosofo Platone per la ricchezza delle metafore, la qualità poetica e la vibrazione del sacro che li animano.
Infine, il sogno di riunire tutti i personaggi e i libri della letteratura è simile a quello della Biblioteca universale di Borges.
Perfino il linguaggio è fatto di tòpoi letterari e come infarcito di continue citazioni che però non appaiono più tali, perché convergono in una pronuncia “soale” tutta peraltiana, a metà tra sogno della lingua letteraria (spesso anche fiabesca ed oleografica) ed il realismo del linguaggio comune. La sua qualità dominante, lirica ed effusiva, porta in sé l’impronta del lungo esercizio poetico dell’autore, ma anche del suo spazio interiore, delicato e spirituale.
Potrei ancora continuare in questa disamina, ma ritengo bastino queste osservazioni per sottolineare come le caratteristiche dei diversi autori letti da Peralta si siano amalgamate in una concezione unitaria, armoniosa e singolare. E come, in ultima analisi, come prima accennavo, anche questo romanzo s’inserisca all’interno della filosofia della soaltà che è cosa tutta peraltiana, cioè di quell’amalgama di sogno e realtà, in cui, come scrive acutamente nella prefazione Sandro Gros Pietro, che ne è anche l’editore, “tenta il teatro nel teatro, la pittura dentro la tela, il significato oltre il significante, l’individuo fuori dalla storia, la verità fuori dal mondo”.
Questo romanzo rivela anche una solida eticità ed una centralità cristica, così da determinare anche una lettura nuova di certi capolavori della letteratura, come accade per K., protagonista de Il processo di Kafka, attraverso la bocca del Padre, uno dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello; cosi come nuova è la lettura del mito di Narciso per bocca di Beatrice.
Ogni personaggio di questo romanzo rappresenta una qualità umana, una sfaccettatura psicologica molto evidente: Sonja la fede nella Bellezza e nel Sacrificio di sé, Sierva Maria l’amore al suo più alto stadio di purezza ed elevazione spirituale; K. la ricerca di un’identità, ma anche l’uomo, che non accogliendo in sé la colpa, non sa amare gli altri; Pinocchio l’incontro fra materia cosale e materia umana, ma, in senso più lato, la fantasticheria e l’infanzia; Amleto il disagio d’essere, il dubbio; Orfeo il poeta che vuole trarre alla luce l’altra faccia del canto; Euridice la consapevolezza che con i sensi non si può conoscere la verità; Odisseo la curiosità per le cose terrene e, in genere, i valori del mondo pagano; il Padre ( uno dei “Sei personaggi in cerca d’autore”) il rimorso del peccato ed il desiderio di redenzione.
Tutti i personaggi, questi e gli altri che non ho nominato, sono, però accomunati dalla consapevolezza della necessità e dell’utilità della letteratura, pur soffrendo per la loro natura di creature soltanto sognate dall’uomo. Facciamone parlare alcuni, uno dopo l’altro:
Beatrice (parlando ai personaggi): “Anche se siete solo delle Ombre, grazie a voi l’uomo partecipa del mistero della vita, ovvero della Bellezza della creazione”.
Il Padre: “Attraverso di noi l’uomo si guarda vivere, facendosi più umano; a volte più estraneo; oppure si distrae, semplicemente, o si scopre divino”.
Odisseo: “Noi non siamo nati Ombre per inseguire la vita, ma per rappresentarla agli uomini come in uno specchio affinché attraverso di noi (…) si prodigassero per seguir virtute e conoscenza e mettersi in cammino verso la verità.”
Sierva Maria. “I libri sono la prova e la giustificazione estetica della nostra strana e favolosa esistenza.”
Amleto: “Ora ci giunge il respiro accattivante dei libri che ci tiene tutti abbracciati e siamo noi quel respiro che è spiraglio di luce.”
Sonja: “Le lacrime versate e raccolte nei libri bagnano gli occhi di qualche gentile lettore, ne innalzano l’anima e la purificano…C’è bellezza nei libri! E i libri, non sono forse il corpo con cui abbracciamo il mondo?”
Adesso veniamo alla trama del romanzo, sebbene i fatti siano davvero pochi, per cui preferirei parlare di alcuni punti vitali, psichico-emotivi: K. arriva nel Castello dove trova riuniti i personaggi della letteratura di tutti i tempi, ai quali Beatrice, la musa di Dante, promette la visione del Decimo cielo. Tuttavia, anche dopo questa promessa, i Personaggi tentennano fino al punto di stare per cedere al consiglio di Odisseo di bruciare la Biblioteca e fare cessare per sempre la produzione dei libri, così che le loro anime, liberate dal sogno, possano emigrare nei corpi degli uomini per vivere un nuovo e vero romanzo. A lui si oppone, e ovviamente, Montag, l’eroe di “Fahreneit 451” di Ray Bradbury, che esalta la Bellezza custodita nei libri e, citando il passo dell’Apocalisse, in cui si dice: Furono aperti i libri e fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri, ciascuno secondo le sue opere…”, la investe di un’aura di sacraIità. La stasi della scena viene interrotta dall’improvviso salto di Pinocchio dal ponte e dalla sua morte in una chiazza di sangue che è, secondo l’opinione del Padre dei “Sei personaggi”, la prova che il burattino è morto e vissuto veramente, “che vera fu la metamorfosi dalla sua natura di legno all’umana natura” e che, dunque, sarà per loro più semplice, “essendo più vicini al vero”, avverarsi. A questo punto si inserisce il discorso di Don Chisciotte che espone la teoria della soaltà peraltiana, sostenendo che il sogno non è fantasia ed ha il primato sulla realtà che esso stesso genera. Successivamente prendono la parola le Cose stesse che cercano di dissuadere i Personaggi dal volere vivere in un mondo abitato dal caos e dalla follia informatica, incitandoli a tornare nel Castello: esortazione che viene rafforzata da quella del Padre che mette in risalto la necessità per gli uomini di rinunciare al male. Anche Odisseo, eroe pagano, comincia a capire che il passaggio verso l’immortalità va cercato in profondità attraverso il ponte verticale, cioè attraverso un’ascesa spirituale realizzabile solo grazie ad una guerra giusta ed altruista per salvare la specie umana dagli umanoidi. Ancora una volta il dialogo fra i personaggi viene interrotto dall’irruzione di alcuni uomini- rinoceronti (con evidente allusione a Ionesco), uno dei quali si ferma, mostrando di reggere sulla groppa nientemeno che Pinocchio redivivo, il quale chiede l’aiuto degli altri per lottare e rinconvertire i rinoceronti in esseri umani, nella convinzione che “Finché c’è fiaba, c’è ancora speranza per l’uomo!”, così come l’apparizione di un liocorno testimonia la necessità per gli umani di storie, di favole e di poesia. Infine i Personaggi conquistano la visione del decimo cielo, cioè la Galassia dei segni, il paradiso della scrittura, l’Empireo in cui campeggia l’albero della Visione.
Questi nodi narrativi costituiscono l’occasione per una serie di dialoghi e monologhi, anche se in questo romanzo la differenza fra le due cose è molto sottile, poiché anche i monologhi si riverberano sulla psiche degli altri personaggi determinando mutamenti, dubbi, sentimenti corali.
Per finire, va sottolineato che tutti i Personaggi, anche quelli pagani, compiono, di capitolo in capitolo, un percorso verso l’Amore cristico e che è per questo che diventano degni della visione del Decimo Cielo. Dice, infatti, Sonja, la più ardente e quasi mistica fra i personaggi: “L’amore e la compassione saranno il nostro progresso spirituale” e, ancora, “Solo l’amore riconduce il mondo a Dio”.