martedì 2 giugno 2015


Giuseppe La Russa
 
 
Il romanzo H-Ombre-S, del palermitano Guglielmo Peralta, racconta una storia certamente particolare, a tratti sfuggente, incorporea, diafana: personaggi della letteratura mondiale (tra gli altri, Odisseo, Beatrice, la Sonja di Dostoevskij, Pinocchio ecc..), imprigionati in un luogo che è di fatto un non-luogo, quello della fantasia dei loro autori e che Peralta, con suo neologismo, definisce Soaltà, tentano il salto verso la vita vera, quella degli uomini reali, verso la realtà concreta e tangibile, nonostante sia avvertita da tutti come «troppo carica di nefandezze e colpe mondane». Il motivo per cui devono tentare questa fuga è l’umanità di cui essi stessi sono partecipi, poiché i loro autori, coloro che li hanno creati, li hanno rivestiti di ogni residuo e frammento che l’essere umano trascina inevitabilmente con sé. Dunque, un romanzo che nell’opposizione sogno-realtà (è questo lo scioglimento del termine Soaltà) vede la sua matrice, la sua colonna portante: da questa si dipanano diverse opposizioni, pesantezza-leggerezza, materialità-spiritualità, immanenza-trascendenza che, in ultima analisi, a quella Soaltà fanno capo. Dunque, già nell’accenno della trama e della sua struttura dicotomica, si può notare come ogni pagina si muova su un equilibrio precario, a volte inconsistente, a volte difficile da stabilire? Come, allora, può reggersi in piedi una narrazione lunga 180 pagine? Ci viene in soccorso Italo Calvino con una delle sue Lezioni Americane, quella sull’esattezza, di cui si riportano brevissimi stralci di certo illuminanti: «Esattezza vuol dire per me», scrive l’autore di Palomar, «soprattutto tre cose: 1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2) l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili, icastiche; 3) un linguaggio il più preciso possibile. Perché sento il bisogno di difendere dei valori che a molti potranno sembrare ovvi? Credo che la mia prima spinta venga da una mia ipersensibilità o allergia: mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile».
Ora, in Peralta, un disegno dell’opera ben definito e calcolato è di necessità vitale, visto quell’equilibrio precario di cui si diceva: senza di esso il romanzo non potrebbe tenersi e in piedi, mentre lo sguardo dall’alto dell’autore consente alla pagina di scorrere in maniera lineare e senza fuoriuscite. Inoltre, ci troviamo di fronte ad un cultore della parola, ad un autore che ha fede nella sua capacità evocativa, nella sua possibilità eterna di generare, di partorire segni e significati: ecco perché la scelta di ogni significante non può essere lasciata al caso. Ogni termine ha con sé un significato innanzitutto particolare che, vedremo, sarà, in virtù di ciò, capace di aprirsi all’universale. Così ogni pagina: Peralta carica ogni foglio di un significato che appare ultimo, definitivo, massimamente pregnante, ad ogni voltar di pagina sembra svelare la fine, salvo poi tornare indietro; come ogni parola anche ogni pagina è portatrice di una individualità di significato che diventerà un Tutto. Dunque, si può bene vedere, nell’attenzione calviniana al linguaggio, possiamo intravedere già la cifra stilistica che sottende al libro di Peralta: infatti la forma che lo scrittore sceglie per il suo romanzo è perfetto specchio della storia raccontata, di una storia che si muove tra il concreto delle parole e il diafano, l’incorporeo delle immagini e situazioni.
Ma torniamo un attimo a Calvino e alla sua apologia dell’esattezza. Come contraddittore ideale della sua tesi sceglie, in un primo momento, Giacomo Leopardi, per cui, com’è noto, più la parola è vaga ed imprecisa, più ci si avvicina alla poesia; ma, ci fa notare Calvino, dopo l’elenco leopardiano (estrapolato dallo Zibaldone) di situazioni  propizie allo stato d’animo “indefinito”, quello che il poeta recanatese richiede da noi per farci gustare la bellezza dell’indeterminato è «una attenzione estremamente precisa e meticolosa che egli esige nella composizione d’ogni immagine, nella definizione dei dettagli. […] Dunque Leopardi, che avevo scelto come contraddittore ideale della mia apologia dell’esattezza, si rivela un decisivo testimone a favore. Il poeta del vago può essere solo il poeta della precisione, che sa cogliere la sensazione più sottile con occhio, orecchio, mano pronti e sicuri». E ancora: «La poesia dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità imprevedibili, così come la poesia del nulla nascono da un poeta che non ha dubbi sulla fisicità del mondo».
In particolar modo quest’ultima frase ci appare estremamente densa e capace di tracciare la via da seguire nell’analisi del romanzo peraltiano: se l’autore di H – ombre – s nutrisse  un solo dubbio sulla realtà che fa da retroterra e retroscena all’incorporea storia raccontata, davvero, come si diceva prima, la narrazione non potrebbe reggersi in piedi. Dunque una materialità che è premessa sostanziale e necessaria e che viene testimoniata da questa attenzione meticolosa al linguaggio, una premessa che può, in tal modo, raccontare una storia fatta di corpi-non corpi, luoghi-non luoghi: uno stile, si vede, specchio perfetto delle vicende del romanzo, perché come i personaggi si muovono in questo spazio che è tra sogno e realtà, fra materiale e immateriale, immanente e trascendente, così accade anche con il linguaggio adoperato.
Svariati sono i temi trattati, diversi gli ambiti sfiorati dai personaggi che ravvivano il racconto, dal tema “infinito” dell’Amore, dalle opposizioni pesantezza-leggerezza, anima-corpo, materialità-spiritualità, immanenza-trascendenza, ma si tratta, possiamo constatare, di opposizioni che sembrano partire da una stessa matrice, quella che abbiamo già anticipato e che è traducibile nel termine Soaltà. Il punto essenziale qual è, allora? Il punto d’approdo. Se le opposizioni che reggono il testo sono queste, se la fuga dei personaggi risulta a più riprese difficile, quale sarà lo scioglimento finale e che significato avrà?
Ѐ nella loro aspirazione alla fuga, però, che troveremo la risposta e l’esito finali: la vita vera è sì guardata come il luogo della pesantezza, del fardello continuo, a differenza della leggerezza e spiritualità in cui “vivono” le ombre, ma a quella materialità i personaggi non possono che aspirare, non possono che tendere, mantenendo così fede all’umanità di cui i loro autori li hanno rivestiti nelle avventure libresche. In uno stralcio, a p. 49, si legge: «La pesantezza, avvertita attraverso gli occhi spalancati sulla “realtà” li fa sentire umani, troppo umani: carichi delle nefandezze e delle colpe mondane; attratti dalle passioni, dagli agi, dalle trasgressioni, dal potere costituito in ogni sua forma, dai beni materiali, ma protesi anche verso le alte vette dello spirito. […] Ma nella lotta tra la leggerezza e la pesantezza, tra lo spirito e la materia, prevalse quel desiderio di fuga, la voglia di essere umani!»
Ma appare chiaro che quella di Peralta sia un’allegoria dell’Arte, in generale, della scrittura in particolare (ecco il perché del riferimento iniziale a Calvino). Parlare di un testo meta-letterario non mi sembra poi così sbagliato, poiché attraverso la letteratura si parla di essa e lo si fa con la bocca dei personaggi che alla letteratura stessa hanno dato vita. Assolutamente illuminante in tal senso è un altro passo del romanzo, a p. 37. Parla Odisseo, rivolgendosi a Pinocchio, con queste parole: «Caro Pinocchio, a quest’avventura ti confesso di sentirmi impreparato, perché non vedo, fuori di qui, terra d’approdo! Noi non siamo nati Ombre per inseguire la vita ma per rappresentarla agli uomini come in uno specchio, affinché essi riconoscendosi, attraverso di noi, falsi bruti e bugiardi, si prodigassero “per seguir virtute e canoscenza” e mettersi in cammino verso la verità, che non è certamente quella che io “estorsi” alle Sirene e che, essendone dubbioso, andai a cercare oltre le Colonne perdendo così la mia vita. […]In questa verità più profonda dobbiamo prendere posto, non con la fuga, ma con la ricerca, la quale non allontana mai da casa il viandante e gli assicura sempre di ritornarvi»! Questo è un pezzo che troviamo ad inizio romanzo, ma che già velatamente anticipa il finale: Peralta ci fa pregustare il quid delle azioni narrate, ogni volta con un elemento in più, ma non scioglie mai del tutto le riserve. Fa crescere così la suspense, fa accrescere in noi il desiderio, la smania di vedere. Sottolineiamo e ricordiamo questa frase: «La ricerca non allontana mai da casa il viandante e gli assicura sempre di ritornarvi» (nostra la sottolineatura): è un concetto chiave del racconto, una fondamentale parentesi che lasciamo volutamente aperta e che riprenderemo fra poco.
Un elemento che, mi viene in mente nel parlare del testo di Peralta, è il ‘Mistero’. In che senso?
A p. 174 del romanzo si legge: «Mistero è la Bellezza che si concede all’ascolto e nasconde il suo volto nello splendore delle forme infinite della natura e dell’umana creazione. Cari personaggi, voi pure siete un mistero».
Noberto Bobbio, pensatore morto nel 2004 e che sempre si definì lontano dalla religione, scriveva come ogni essere umano si sente immerso nel mistero ed è questa la conditio sine qua non per la spiritualità, che poi può configurarsi come religione, come filosofia o magari entrambe le cose. Ora, un autore, teologo molto noto, Vito Mancuso, scrive come il mistero sia una condizione esistenziale che riguarda la totalità della vita, che ci avvolge dal di dentro. Inoltre, scrive una cosa molto bella che, a mio modo di vedere, racchiude bene la condizione dei Personaggi peraltiani: «La percezione del mistero della vita si dà come inquietudine che attraversa l’esistenza e che ci fa sentire che non siamo dove dovremmo essere, e al contempo come meraviglia che pure attraversa l’esistenza e che ci fa sentire che siamo dove dovremmo essere». Le ombre che popolano il romanzo di Peralta sono totalmente immerse nel mistero, sono il frutto e il risultato di questa armonia e disarmonia, è su questa condizione dicotomica che si gioca tutto l’iter che seguono.
Dunque, allegoria dell’arte certamente, ma attraverso di essa Peralta filosofeggia sulla vita nostra, di noi che ombre non siamo e che questa opposizione non solo l’avvertiamo, ma ne facciamo l’essenza della nostra percezione del mistero che, secondo quanto scrive Mancuso, è il diapason della nostra spiritualità. Dunque un testo che si apre davvero alla riflessione, che sembra immateriale ed incorporeo e non fa altro che parlare di noi, della nostra quotidianità.
E in questa meraviglia, scrive Mancuso, che ci fa sentire che “siamo dove dovremmo essere” sta lo scioglimento del nodo, l’exitus delle azioni raccontate in H-ombre-s. Il punto non sta nel dover cercare necessariamente un luogo verso cui migrare, ma il trovare il Senso della propria vita con le azioni che si compiono. Ѐ questo, ne sono certo, un insegnamento di vita. Uno studioso e ricercatore palermitano, Tommaso Romano, direttore della casa editrice Thule, scrive: «Il Senso del Senso è il Senso che ognuno riesce a dare alla propria esistenza». Trovando il Senso della propria vita, puoi trovarti ovunque e non sarai mai in esilio. Potrai invece essere proprio dove vuoi, ma se non dai e non trovi il senso, sarai sempre esule da te stesso. Ѐ questa la consapevolezza a cui arrivano i Personaggi del libro di Peralta e lo fanno attraverso e grazie le parole di Sonja, personaggio di Dostoevskij: «Questo piccolo liocorno non è qui per ricordarci la nostra fuga, ma per inverare e mostrarci con la sua sacra figura le ragioni della nostra umbratile esistenza […] Come Prometeo, noi doniamo il fuoco agli uomini, portiamo la luce nel mondo. E per questa luce noi restiamo incatenati e patiamo ogni genere di sofferenze. Ma dal dolore che ci consuma nasce negli uomini la gioia che ci rinnova e ci riproduce. Perché gli umani hanno bisogno di storie, di favole, di poesia, e noi siamo quel pane che si moltiplica e che essi ricevono per la ricchezza dello spirito»; ed è questo il senso della ricerca, di quella parentesi che avevamo aperto con le parole di Odisseo: nella ricerca del Mistero, nel “desiderio di penetrarlo”, scriverebbe Machado, sta IL quid.
Una consapevolezza che avviene nel nome della Bellezza. Ma non è una bellezza, quella di Peralta, meramente estetica, ma anche e soprattutto umana, spirituale. Bellezza è Amore, per Peralta, tanto che una delle più forti teorizzazioni presenti nel testo è proprio quella sull’Amore, in nome del quale la ricerca può avere senso. Si dice, ad esempio a p. 78 come «Non c’è vero ritorno senza amore e non c’è salvezza per chi, in solitudine, si salva»! In nome di questa bellezza, dunque, il dettaglio si scioglie nell’insieme, l’uno trova sede nel tutto, il particolare nell’universale. A livello stilistico abbiamo detto che ogni parola, in Peralta, è estremamente icastica, immaginifica, portatrice di un significato generale: così ogni pagina, incredibilmente densa, anch’essa portatrice di un messaggio universale. Dunque, così come nello stile e nella forma, anche a livello contenutistico succede la stessa cosa: ogni personaggio ha in sé un significato particolare, è portatore di un senso individuale che, però, si scioglie nell’Universale concetto di Bellezza e di Amore, inteso proprio come unione, come insieme.. La parola diventa universale, come si può leggere sul finire del romanzo, a p. 174: «Ma la parola, quella che si veste d’infinito e fa gli uomini immensi, quella ribattezzata nella sacra luce del sogno e che si fa peregrina e passionaria sulla via della Bellezza e s’offre fino alla croce, questa parola ineffabile e mai taciuta, se per avventura o per grazia liberasse il suo canto dentro la voce non solo dei poeti ma dell’intero genere umano, allora il mondo sarebbe un vero Poema, una Divina Commedia che prosciugherebbe la nostra valle di lacrime»
È questo l’iter che Beatrice consiglia, la risposta che si dà Sonja, personaggio chiave del racconto ed estrapolato da Delitto e castigo di Dostoevskij: ogni personaggio troverà la propria risposta nella stesse sede in cui si trova, proprio perché il singolo è diventato tutto, è diventato insieme. La loro forza e la loro vittoria stanno nel donare l’immortalità a chi li ha pensati, a chi li ha generati, come li avverte con accorate parole il ciclope Polifemo, sul finire del racconto: «Voi siete spirito e figli dello spirito, generati e non creati dalla Bellezza, da questa Virtù immacolata».
Ogni personaggio si illumina nella consapevolezza di essere luce nel mondo, «perché gli esseri umani hanno bisogno di storie, di favole, di poesia, e noi siamo quel pane che si moltiplica e che essi ricevono per la ricchezza dello spirito». Con i libri e per mezzo di essi l’uomo può ancora trovare spazio nella soaltà dei personaggi che legge, lì restare, sciogliersi con essi, diventare parte di un tutto, un tutto, il cui nome è Bellezza.
Per concludere ciclicamente con Calvino e una sua frase celebre tratta da Le città invisibili, «D’ una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda».

 

 

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