martedì 2 giugno 2015




Guglielmo Peralta
Genesi e sviluppo del romanzo

1. L’idea

Questo mio romanzo, come ha giustamente affermato Franca Alaimo, è “un inno alla divina creatività dell’uomo, alla letteratura e alla poesia. È un unicum sulla letteratura nella storia della letteratura”. In effetti, il romanzo è una celebrazione e un omaggio a tutti gli autori, passati, presenti e a-venire. Essi vi sono tutti rappresentati attraverso una folto “campionario” di personaggi “prelevati” dal mondo della scrittura e collocati in un Castello, che richiama quello del romanzo  kafkiano ma che nel mio testo appare trasformato assumendovi una connotazione del tutto nuova. Esso è, fuor di metafora, lo spazio letterario, lo spirito infinito dell’uomo, il “luogo” dove nascono tutte le produzioni umane.
“H-ombre-s” prende l’avvio proprio da K., il personaggio protagonista de “Il Castello” di Franz Kafka, rimasto incompiuto, al quale, dopo più di ottant’anni (1), io do accoglienza e ospitalità nel mio romanzo, che, se da un lato, può considerarsi anch’esso incompiuto per l’impossibilità di farvi rientrare effettivamente tutti i personaggi della storia della letteratura mondiale e farli parlare e interagire tra di loro, dall’altro lato, esso è un’opera infinita, perché idealmente tutti quei personaggi
vi sono contenuti, abitano tutti in quel Castello della creazione, in quel “luogo” u-topico dell’anima, o dello spirito, in-scritto, “chiuso” come un’enclave nel “territorio” dell’umana corporeità e, tuttavia, infinitamente aperto e sconfinato.

2. Il titolo

“Il Castello” sarebbe stato il titolo ideale, rispondente al tema fondamentale trattato, e, soprattutto, in continuità con l’opera di kafka. Tuttavia, non volendo ripetere il titolo kafkiano, ho scelto H-ombre-s: una parola spagnola che, oltre ad avere assonanza, identità di suono con il termine italiano ombre, lo contiene in sé, così che essa acquista il doppio significato di uomini e di ombre rivelandosi parola epifanica. Infatti, oltre a rispecchiare la natura dei Personaggi (non esclusivamente quelli del mio testo, ma di tutta la narrativa mondiale), i quali sono Ombre fatte a immagine e somiglianza degli uomini, essa rivela la stessa condizione umana. Noi uomini, infatti, siamo ombre, siamo Personaggi, se immaginiamo il mondo, la vita, come l’infinito sogno o Romanzo di Dio; saremo ombre dopo questa vita, in un “regno” che non sappiamo e ombre siamo  in questo mondo, in questa realtà, forse apparente, dove andiamo in cerca di una verità che riveli la nostra vera essenza. Tutte le lingue hanno delle parole epifaniche, rivelatrici. E ciò è veramente qualcosa di grandioso che rende potenti le lingue, le quali, anche se sono tra di loro straniere e separate, non lo sono però del tutto, costituendo tutte insieme un’unica Lingua universale, una galassia infinita di segni. E perciò esse ci permettono di ampliare il nostro orizzonte linguistico e  semantico, di guardare in questo orizzonte s-confinato (senza confini) e scorgervi nuovi mondi, generati dalle loro parole epifaniche portatrici di nuove idee, di nuovi significati, di nuovi cieli d’arare.

(1) Das Schloss, composto nel 1921-22, uscì postumo nel 1926. La stesura di H-OMBRE-S inizia nel 2006, anno in cui K. è accolto nel  Castello, all’interno di questo romanzo

3. L’esergo

In esergo ho posto tre citazioni di tre grandi uomini/autori (Wojtyla, Novalis, Borges). Devo direDevo dire che mi sono imbattuto in esse sfogliando dei testi, qualche tempo dopo avere finito di scrivere il romanzo. Esse sono saltate fuori all’improvviso da quei testi, mi sono venute all’incontro, ed è stata per me una grande sorpresa rendermi conto di come queste citazioni calzassero a pennello ai miei personaggi, di come già gli appartenessero, avendole io messe, in qualche modo, loro in bocca. A pag. 36 Pinocchio dice: “Voglio sul serio andare nel mondo e fare della mia vita un autentico capolavoro”. ( K. Wojtyla: “Prendete in mano la vostra vita e fatene un capolavoro”) E a pag. 163 Il Padre, la Figura principale dei Sei Personaggi pirandelliani, osserva: “Meglio sarebbe per noi, se ci  salvassimo facendoci autori di un sogno tutto nostro”, che è come dire con Novalis, citato in esergo: “La vita non deve essere un romanzo impostoci, bensì un romanzo fatto da noi”.
Per quanto riguarda la terza citazione, di Borges, anch’io ho sempre immaginato, non proprio il Paradiso (come dice Borges), ma il luogo della creazione, il Castello dello spirito, come una biblioteca infinita.

4. I temi

a. La volontà di vivere dei Personaggi

Essa nasce quando i Personaggi acquistano coscienza, tramite Beatrice, che la loro vita è illusione, finzione, sogno, in quanto “trasmessa” dagli uomini, dai loro autori. Essi perciò anelano a vivere, razionalmente, in un mondo reale, persuasi di potere “costruire” una vita nuova, di inaugurare una nuova stagione dell’uomo e di realizzare la propria salvezza.

b. La catarsi

La volontà di vivere dei Personaggi non è quella forza cieca, irrazionale, di cui parla Schopenhauer e che ha come scopo la sopravvivenza dell’uomo, ma è il desiderio della catarsi, che essi credono di potere raggiungere attraverso una vita autentica, reale, fuori dal sogno, fuori dalla finzione imposta dai loro autori.

c. Il sogno, ovvero, l’autorealizzazione

I Personaggi, a lungo andare, si persuadono sempre di più di potere realizzare il salto nel mondo attraverso un sogno tutto loro, attraverso, cioè, un pensiero creativo autonomo, che li renda autori della propria vita, convinti, anche, di fare di essa un’opera d’arte, in sintonia con la Bellezza.
d. Il piacere estetico. L’utilità dei Personaggi, ovvero, della letteratura e, in particolare, dei libri
I Personaggi, inoltre, sono confortati dall’idea di potere realizzare la loro catarsi, soprattutto attraverso il piacere estetico che essi procurano agli uomini e che avvince costoro nell’ascolto della parola che tesse le loro Ombre, le loro vite sognate. I Personaggi ritengono, infatti, che il godimento, indotto agli uomini attraverso la lettura dei libri, sia sufficiente a farli sentire affrancati dal male e dalle sofferenze che essi patiscono per “volontà” dei loro dei mortali. Essi (come le cose, ma in un modo differente da queste, e cioè spirituale) servono agli uomini,
perché, in quanto messaggeri e “testimoni” della bellezza, sono, appunto, strumento di liberazione, di godimento estetico per l’uomo, o, più semplicemente, di distrazione, di divertissement. In un senso più alto e auspicabile, ne realizzano la catarsi. Ma proprio in virtù di questo loro servigio reso ai mortali, sono, soprattutto, essi stessi ad affrancarsi dalla sofferenza di una vita, sì, illusoria, ma forse per questo ancora più tragica, e ad ascendere, infine, al decimo cielo.

e. L’autonomia e la persuasività dell’opera d’arte

La Bellezza si riverbera nel linguaggio, nel dire della parola poetica che scaturisce dalla sorgente, dal quel Dire assoluto e originario che è il Verbo, la Parola creatrice, la Poesia. E qui, l’opera d’arte è autonoma, in quanto “gode” di quella Bellezza che è verità assoluta e ineffabile. È questa Bellezza che, alla fine, persuade i Personaggi a rinunciare al mondo, dove, peraltro, “vivono” attraverso i libri. È nel nome e nella verità della Bellezza che essi ascenderanno al decimo cielo e porteranno così a compimento la loro metamorfosi unendosi alla Parola, divenendo essi stessi Parola, Volto divino, volto dell’Autore, Creazione.

f. L’est-etica

Essa è l’arte del dire il bello in coniugazione con il buon dire, cioè col dire ciò che è buono. È questa fusione di bello e di buono, in cui l’est è emanazione, riflesso della lux divina, di quel Dire originario che è il Verbo dell’essere con cui Dio crea tutte le cose avendo cura, assicurandosi che ogni cosa creata sia Buona, cioè Bella. L’est, dunque, è questa luce che origina ed orienta e su cui va fondata la nuova etica del mondo.

g. Eticità e altruismo dei personaggi

C’è un aspetto etico nei Personaggi, nel loro desiderio, nella loro manifesta volontà di conquistare la libertà per potere intraprendere la lotta per una giusta causa, ossia, per combattere a difesa degli umani, contro gli umanoidi che ne minacciano l’esistenza.

h. Il sacro: ciò che rivela e ciò che è rivelato

Il sacro è la presenza della divinità nella natura fisica e nella natura umana. Entrambe le nature, dunque, sono sacre, essendo creature di Dio e perciò strettamente unite alla natura divina che, però, resta invisibile. Il sacro è, allora, questa unione delle nature visibili (fisica e umana) e della natura invisibile (la divinità). È ciò che è s-velato dalla natura e dall’uomo, che svolgono questa funzione
rivelatrice: l’una con la bellezza e con la bontà emanate e sancite dal Verbo; l’altro con la sua attività creatrice. Il rivelato è la “manifestazione” del divino, che fa sacro ciò che lo rivela sottraendolo all’“invisibilità”. Oltre all’uomo e alla natura fisica, sacre sono anche la natura seconda, o artificiale, e l’arte, per mezzo delle quali pure accade la rivelazione. Le cose, in quanto create dall’uomo, sono create, indirettamente, da Dio, perché da Dio viene all’uomo la creazione. Esse, perciò, sono sacre, perché com-prendono le due nature che procedono da Dio“: quella fisica da cui sono tratti i materiali con cui sono costruite, e che è la loro natura specifica, e quella umana che le concepisce. L’arte, che ha a che fare in maniera più diretta con lo spirito e le sue produzioni, ancora di più delle cose svela l’origine “divina” delle opere e, dunque, la presenza della divinità in esse.

i. Lo s-guardo e il volto delle cose

Chi dà sacralità alle cose materiali è lo s-guardo (la visione soale), che le coglie nel “luogo” della loro origine rivelandone la doppia natura: umana e “divina”. Cogliere questa unione è vedere il vero volto delle cose; significa stabilire con esse un nuovo legame, un’autentica “comunicazione” che, al di là del legame “utilitaristico”, le tragga dall’oblio o dalla distrazione con cui le usiamo quotidianamente.
l. La giustificazione estetica dell’esistenza dei Personaggi e la coscienza permanente della bellezza
In un luogo del romanzo, Sierva Marίa dice: “Il godimento degli occhi è il trionfo dell’arte, il miracolo della Bellezza solo per la quale esistiamo! I libri sono la prova e la giustificazione estetica della nostra strana e favolosa esistenza”.
L’arte, dunque, giustifica l’esistenza dei personaggi, in quanto essi sono portatori e custodi della bellezza, partorita dal dolore, dalla tragedia umana che la bellezza stessa trasforma e purifica. I personaggi “esistono” (e, dunque, esiste l’opera, l’opera d’arte) perché servono all’uomo, gli sono utili perché lo “liberano”, lo distraggono in qualche modo, e sia pure per brevi istanti, dalle ambasce e dalle preoccupazioni suscitando e rafforzando in lui il desiderio del bene. Acquisire una volontà est-etica significa trasformare la coscienza di questa distrazione, che è il godimento estetico momentaneo, nella coscienza permanente della bellezza che è in noi e intorno a noi; significa fare delle microestasi dei momenti duraturi, persistenti, per sentirsi affrancati e liberati dalla pesantezza del vivere.

m. La soaltà

Nell’aspirazione dei Personaggi a realizzarsi, a divenire reali attraverso il sogno, un sogno che non sia invenzione del loro autore, ma frutto della loro volontà e immaginazione creatrice, è implicito il concetto di soaltà. ( Una breve parentesi, per dire che la soaltà è, fin qui, la risposta ultima al problema degli opposti. Essa, nascendo come sintesi di sogno e realtà, che sono altri nomi dell’Io e del Non-Io, elimina la contraddizione dell’Idealismo. Ma sorvoliamo su questo aspetto, che richiede una trattazione a parte). A parlare, ad esplicitare la soaltà, sono Don Chisciotte e, soprattutto, le Cose. Il sogno non è solo l’autorealizzazione dei Personaggi, che è una “verità” letteraria, ma è, soprattutto, una verità della vita, una realtà, al tempo stesso, umana e divina, un’esperienza interiore e un oblio che richiedono un nuovo punto di vista, uno s-guardo che (si) apra una nuova visione e
metta in “chiaro” il sogno nella concretezza della realtà, di cui è principio e parte costitutiva. Le cose, prima di essere tali, sono sogno, idea, realtà interiore dell’uomo che prima le immagina, le concepisce e poi le costruisce dando così loro una forma e un corpo materiali. Esse sono, dunque, soaltà, “dentro” e fuori: sintesi perfetta di sogno e realtà, di spirito e materia, di natura umana e fisica, che essendo, per derivazione, “divine”, trasferiscono alle cose l’impronta della divinità. E ciò è espresso chiaramente dalle Cose (pagg.145-146): «(…) celato dentro di noi vive lo spirito dell’uomo e cioè quel sogno, che è la nostra origine e che nella sua unione con la realtà fa della nostra natura morta una natura soale!...E così, in virtù della soaltà, anche se noi non viviamo, siamo tuttavia nel mondo! (…) L’uomo non ha occhi per la nostra natura soale che in sé unisce le due realtà: quella umana del sogno che ci concepisce e quella divina della natura da cui il nostro artefice trae la materia prima con la quale veste il sogno dando così a noi un corpo reale. Sì. Noi siamo l’incarnazione del sogno e la sua realtà visibile!...Sogno e realtà, spirito e materia sono la nostra anima e il nostro corpo. Tuttavia, siamo natura morta in attesa della resurrezione! La quale potrà avvenire solo se il nostro artefice ci restituirà alla bontà e alla bellezza del sogno liberandoci dall’uso che ci degrada e in cui siamo obliate e condannate alla sparizione».

n. L’oblio e la resurrezione delle cose

Il sogno è lo spirito e l’anima delle cose. Ritenute corpi inanimati e classificate come natura morta, per l’incapacità degli occhi di coglierne l’essenza vitale, le cose finiscono per essere consegnate dall’uso all’oblio e condannate, perciò, alla sparizione. Una doppia morte, dunque, è il loro destino, nonostante la loro esistenza sia necessaria e ausiliaria alla vita dell’uomo. Tuttavia, gli occhi hanno
il potere di ridestare le cose, perché, in virtù dello s-guardo soale, essi ripercorrono il processo creativo aprendosi all’interiore spettacolo, del quale finiscono per essere spettatori sulla scena del mondo dove il sogno, rappresentato dagli oggetti, finisce per “manifestarsi”. Attraverso questa rinnovata vista - si legge nel romanzo - si apre nelle Cose la soglia della coscienza al di là dell’oblio, dove giacciono e sono natura morta, servitrici accondiscendenti e devote, mute presenze, abusate e rese schiave dall’uso indiscriminato e scriteriato. Esse vedono dentro la loro notte e anelando la luce mostrano la loro essenza spirituale, sollevate un poco dalle  fatiche del mondo. Infelici nella loro esistenza mondana, furono felici nel luogo dell’origine, quando non avevano ancora un corpo ed erano solo il sogno del loro creatore, lungi dal divenire preda dell’oblio, dall’impallidire nell’uso quotidiano fino alla completa e inesorabile sparizione, dall’essere trascurate, distrutte, mortificate nei mercati, ridotte a merci comprate e vendute, abusate dal denaro o, peggio ancora, usate contro la loro natura, fuori dall’uso per cui sono state create.
Riconoscere che il sogno è la natura spirituale delle cose è destare queste dormienti e proclamare la loro resurrezione.

o. Il potere come assenza del potere

Dice Amleto, a pag. 158: « Desidero un regno senza sudditi, dove ciascuno sia re di sé stesso e in virtù dell’amore e della Bellezza eserciti quel sano potere che gli consenta di dire: Io Posso!...di agire, cioè, da onest’uomo, secondo libertà, verità e giustizia». Si auspica, qui, l’esercizio di un potere illuminato dall’amore e dalla Bellezza, di una facoltà claritativa che, in assenza di ogni potere, conferisca all’uomo l’assoluta libertà di agire nella legalità della luce, e renda così lecita ogni azione dandole il giusto valore. La claritas, che in Tommaso D’Aquino è uno dei requisiti della bellezza, insieme con l’integrità o perfezione e con la debita proporzione, è, nella visione soale, la luce della Bellezza che deve fecondare la ragione conferendole quella potestà di agire ed essere guida all’uomo orientandolo verso il bello e il buono.

p. L’identità di essere e non essere

Attraverso l’identità del sogno e della realtà (soaltà), Amleto scioglie il suo dubbio esistenziale e perviene alla conciliazione degli opposti risolvendo, con una grande equazione, la fondamentale questione dibattuta dalla filosofia, fin dai presocratici. Egli comprende che l’esistenza è l’apparire dell’essere nella forma del non essere, che, cioè, la realtà è una condizione, una modalità del sogno: lo stare fuori dell’essere come altro da sé, come un non essere che non è negazione dell’essere, ma l’essere medesimo nelle sue forme o modi diversi e molteplici di ex-sistere. Questa intuizione gli permette di formulare l’equazione: l’essere sta alla non esistenza come il non essere sta all’esistenza. E da qui il suo pensiero lo porta a concepire, a dimostrare l’esistenza di Dio negandone l’esistenza stessa: “Gli uomini – egli dice – in quanto esistono non sono, mentre Dio è, in quanto non esiste. Così, negare l’esistenza di questo Dio è comprenderne e affermarne la pura  esistenza, l’Essere puro che riposa in sé stesso! Solo in quanto privo di esistenza mortale, Egli poté dire con verità e certezza: ‘Io Sono Colui Che Sono’, confermando, rafforzando così il proprio essere assoluto”.

q. Il rapporto tra l’opera e l’autore e tra l’autore e i personaggi. Dal “Loquor, ergo sum” all’“essere parlato”

Altra questione dibattuta dalla filosofia e dalla critica moderna, a partire da Mallarmè in poi, riguarda il rapporto tra l’opera e l’autore, tra l’autore e i personaggi, e, in particolare, il problema dell’eclissi, della scomparsa dell’autore. L’opera che, prima di Mallarmè, assicurava l’immortalità al suo autore, ora ne decreta la “morte”. Essa, una volta compiuta, congeda l’autore, il quale, da soggetto parlante, diviene muto e assente. Io ridò esistenza all’autore, riconsegno a lui l’opera riconducendolo all’interno di essa, facendo di lui una voce, un io parlante che non è l’io narrante che può coincidere col personaggio protagonista e con l’autore stesso che, pur parlando in prima persona, resta fuori dall’opera, ma è l’io che parla senza agire, senza essere personaggio. Nel mio romanzo l’autore si rivela, si manifesta ai suoi personaggi, che lo invocano, dichiarando la sua  vocazione, il suo diritto di sognare, il suo amore per la poesia e la bellezza. Ecco, allora, che l’autore, escluso dall’opera e, dunque, dal proprio linguaggio, con questa sua dichiarazione torna ad essere il soggetto parlante, l’io che parla al di là della narrazione, al di là dell’io narrante tornando così ad esistere all’interno dell’opera. Tuttavia, questa mia operazione non risolve del tutto la questione del rapporto opera/autore, la quale si ripresenta se ci chiediamo che cosa sia l’opera e che cosa sia o chi sia l’autore; se l’opera preceda l’autore o viceversa. A differenza dell’uovo e della gallina, qui possiamo rispondere che non può esserci autore senza l’opera, la quale, dunque, precede l’autore, a meno che non si ritenga autore chiunque sia in grado di parlare e scrivere, a meno che non si consideri opera qualunque cosa sia detta o scritta fuori dal modo dell’arte. E in questo caso,  resta da chiedersi se basti un soggetto parlante perché un’opera si costituisca, e se un prodotto qualsiasi sia sufficiente a fare di un soggetto parlante un autore. La questione va affrontata solo nell’ambito della creazione artistica, dalla quale non si può prescindere e di fronte alla quale possiamo dire con certezza che l’autore è un essere contingente che deve all’opera la propria effettiva esistenza. Per risolvere il problema, per dare una risposta definitiva bisogna rispondere alla domanda: Chi parla? È l’autore che parla e crea l’opera, espressione del suo linguaggio, oppure è  l’opera, cioè il linguaggio, che parla e si determina tramite colui che, impropriamente, chiamiamo autore? Se è l’opera che parla, essa è, allora, l’ “autore”, e, in quanto indipendente dal soggetto, è autonoma, si autocostituisce, si origina da sé. Sul finire del romanzo, i personaggi chiedono all’autore una voce affinché possano veramente parlare e, dunque, esistere. Essi, così, auspicano la scomparsa dell’autore, solo in assenza del quale possono veramente parlare. In assenza della voce, i Personaggi sono solo linguaggio, sono parlati dall’autore, e anche in ciò somigliano all’uomo (al loro autore) il quale, per dirla con Heidegger, parla in quanto risponde al Linguaggio, ossia alla Parola che lo chiama alla creazione. E che cos’è questo Linguaggio se non l’Opera, solo a partire dalla quale può esistere l’autore, il soggetto parlante? L’autore (e cioè io) dichiara di non avere una voce da donare ai suoi Personaggi, e, in mancanza di questa voce, egli stesso difetta della parola, parla solo nell’assenza della Parola che lo parla. Dice infatti l’autore: “parlare è un miracolo che non è concesso nemmeno ai poeti”.
L’assenza della Parola, l’impossibilità, cioè, di parlare, di entrare nello spazio sacro del Linguaggio, “non consente a noi sognatori di giungere all’Opera e di approdare al suo canto, a quella Verità che richiede la vita in sacrificio e che non perdona a chi osi guardarla!”

r. Verità e mito.

E qui il mito parla chiaro. Dice tutta la verità, che resta invisibile agli occhi e che si cela nel canto delle sirene, nel volto di Euridice, nello sguardo di Orfeo, nel frutto proibito ad Adamo…verità, che coincide con la morte, col canto medesimo, che si può ascoltare e riprodurre solo a prezzo della vita, perché cantare, parlare, essere autore significa morire e, cioè, entrare, definitivamente, nello spazio dell’Opera, nello spazio infinito della creazione.
Guglielmo Peralta

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