Franca Alaimo
29 ottobre 2011
Ci sono delle opere letterarie che si sottraggono ad una precisa definizione e H-ombre-s di Guglielmo Peralta è una di queste.
Intanto vi abbonda più la riflessione che l’azione, più il monologo che
il dialogo, così che potrebbe definirsi in qualche modo un saggio
romanzato sulla funzione e la necessità della letteratura e su altri
aspetti che intorno ad essa da sempre si dibattono: Perché si scrivono
opere letterarie? E’ più piena e completa la vita letteraria o quella
che viviamo? Qual è il rapporto fra l’idea e la scrittura? Tra l’autore e
i personaggi? Tra l’autore e il lettore?
Potrebbe, questo
romanzo, essere pure definito un’autobiografia o, meglio una
biobibliografia romanzata, visto che Peralta, attraverso esso, rende
omaggio agli autori che più ha amato, mostrando al lettore in modo assai
singolare la propria biblioteca e il proprio percorso di formazione; e
potrebbe, ancora, essere pensato come un trattato di metafisica
romanzata, poiché, attraverso i monologhi e i dialoghi dei personaggi
messi in scena, egli affronta importanti quesiti etici e scioglie un
inno alla grandezza del Creatore ed ai suoi doni, tra cui quello della
scrittura, grazie alla quale lo scrittore può porglisi quasi a fianco in
qualità di inventore di mondi paralleli. Ma, soprattutto, H-ombre-s a
me pare la teatralizzazione della filosofia elaborata da Peralta, nota
come soaltà, intorno alla quale egli ha pure scritto un manifesto vero e
proprio e che ha dato nome ad una pregevole rivista edita a Palermo per
più anni. E, a proposito di teatralizzazione, “H-ombre-s” presenta
caratteristiche più di opera teatrale che di romanzo, per cui ci si
augurerebbe di vederlo rappresentato sul palcoscenico di un teatro.
Forse, a ben riflettere, H-ombre-s costituisce un insieme di tutte
queste cose e, forse, qualcos’altro in più. Insomma, il romanzo
H-ombre-s di Peralta è davvero un’opera originale, direi unica nella
storia della letteratura contemporanea.
Protagonisti di questo
romanzo sono alcuni personaggi della letteratura di tutti i tempi, che
cercano di autogiustificare la loro esistenza dandosi una dimensione più
certa di quella di icone di carta, desiderosi di una vera vita, in modo
che, come ipotizzano, “la morte, quella ricevuta insieme con
l’immortalità, quella subita, per incanto , da occhi estranei” possa
essere “espulsa dai loro corpi di nebbia”, ed essi diventino capaci di
accogliere “come autentica compagna e senza remore, la morte mortale”
salendo “dal regno delle ombre all’impareggiabile regno della luce”.
Il luogo in cui si svolge la vicenda è il Castello dell’agrimensore K.,
con la sua altissima torre, la biblioteca, la valle, un fiume lontano,
un ponte ( che rappresenta il passaggio dalla vita sognata per i
personaggi alla vita vera del mondo) immersi in una notte senza fine,
allucinata, tra incubo e struggente finzione.
La struttura del
romanzo appare come il risultato di una personalissima elaborazione di
elementi tratti da diversi autori della letteratura: l’atmosfera ricorda
quella del Purgatorio dantesco, poiché tutti i personaggi sembrano in
attesa della beatitudine promessa, sospesi fra il ricordo della propria
imperfetta vita letteraria e il desiderio della visione suprema che li
affiancherebbe agli essere umani. Simbolo di quest’attesa, come dicevo
prima, è il ponte che sovrasta la valle e resta a lungo lo scenario di
micro-eventi, emozioni e perplessità, fra ripetuti indietreggiamenti e
piccoli avanzamenti che sembrano reciprocamente annullarsi, come le
provvisorie decisioni sul da farsi via via dibattute. A Dante rimanda
pure l’uso abbondante dell’allegoria; per esempio, la Torre rappresenta,
come svela Beatrice, la misura incolmabile delle idee. Ogni piano è un
cielo in cui brillano le idee generatrici delle opere. La Torre cresce e
s’infinita di nuove idee per emanazione divina attraverso gli autori.
Questa torre, non si può fare a meno di notarlo, è l’esatto
capovolgimento di quella di Babele, torre del caos e della disgregazione
verbale, mentre qui il decimo cielo rappresenta la Parola di Dio, dalla
quale la parola umana discende.
La personalità, invece, e gli
atteggiamenti psicologici dei personaggi ricalcano quella sottigliezza
intellettuale, quel complesso e sofistico ragionare propri dei
personaggi pirandelliani e quella drammaticità di sentimenti estremi che
caratterizza gli eroi tragici di Shakespeare.
I dialoghi a tesi
fra i personaggi rimandano, invece, a quelli del filosofo Platone per la
ricchezza delle metafore, la qualità poetica e la vibrazione del sacro
che li animano.
Infine, il sogno di riunire tutti i personaggi e i
libri della letteratura è simile a quello della Biblioteca universale
di Borges.
Perfino il linguaggio è fatto di tòpoi letterari e
come infarcito di continue citazioni che però non appaiono più tali,
perché convergono in una pronuncia “soale” tutta peraltiana, a metà tra
sogno della lingua letteraria (spesso anche fiabesca ed oleografica) ed
il realismo del linguaggio comune. La sua qualità dominante, lirica ed
effusiva, porta in sé l’impronta del lungo esercizio poetico
dell’autore, ma anche del suo spazio interiore, delicato e spirituale.
Potrei ancora continuare in questa disamina, ma ritengo bastino queste
osservazioni per sottolineare come le caratteristiche dei diversi autori
letti da Peralta si siano amalgamate in una concezione unitaria,
armoniosa e singolare. E come, in ultima analisi, come prima accennavo,
anche questo romanzo s’inserisca all’interno della filosofia della
soaltà che è cosa tutta peraltiana, cioè di quell’amalgama di sogno e
realtà, in cui, come scrive acutamente nella prefazione Sandro Gros
Pietro, che ne è anche l’editore, “tenta il teatro nel teatro, la
pittura dentro la tela, il significato oltre il significante,
l’individuo fuori dalla storia, la verità fuori dal mondo”.
Questo romanzo rivela anche una solida eticità ed una centralità
cristica, così da determinare anche una lettura nuova di certi
capolavori della letteratura, come accade per K., protagonista de Il
processo di Kafka, attraverso la bocca del Padre, uno dei “Sei
personaggi in cerca d’autore” di Pirandello; cosi come nuova è la
lettura del mito di Narciso per bocca di Beatrice.
Ogni
personaggio di questo romanzo rappresenta una qualità umana, una
sfaccettatura psicologica molto evidente: Sonja la fede nella Bellezza e
nel Sacrificio di sé, Sierva Maria l’amore al suo più alto stadio di
purezza ed elevazione spirituale; K. la ricerca di un’identità, ma anche
l’uomo, che non accogliendo in sé la colpa, non sa amare gli altri;
Pinocchio l’incontro fra materia cosale e materia umana, ma, in senso
più lato, la fantasticheria e l’infanzia; Amleto il disagio d’essere, il
dubbio; Orfeo il poeta che vuole trarre alla luce l’altra faccia del
canto; Euridice la consapevolezza che con i sensi non si può conoscere
la verità; Odisseo la curiosità per le cose terrene e, in genere, i
valori del mondo pagano; il Padre ( uno dei “Sei personaggi in cerca
d’autore”) il rimorso del peccato ed il desiderio di redenzione.
Tutti i personaggi, questi e gli altri che non ho nominato, sono, però
accomunati dalla consapevolezza della necessità e dell’utilità della
letteratura, pur soffrendo per la loro natura di creature soltanto
sognate dall’uomo. Facciamone parlare alcuni, uno dopo l’altro:
Beatrice (parlando ai personaggi): “Anche se siete solo delle Ombre,
grazie a voi l’uomo partecipa del mistero della vita, ovvero della
Bellezza della creazione”.
Il Padre: “Attraverso di noi l’uomo si
guarda vivere, facendosi più umano; a volte più estraneo; oppure si
distrae, semplicemente, o si scopre divino”.
Odisseo: “Noi non
siamo nati Ombre per inseguire la vita, ma per rappresentarla agli
uomini come in uno specchio affinché attraverso di noi (…) si
prodigassero per seguir virtute e conoscenza e mettersi in cammino verso
la verità.”
Sierva Maria. “I libri sono la prova e la giustificazione estetica della nostra strana e favolosa esistenza.”
Amleto: “Ora ci giunge il respiro accattivante dei libri che ci tiene
tutti abbracciati e siamo noi quel respiro che è spiraglio di luce.”
Sonja: “Le lacrime versate e raccolte nei libri bagnano gli occhi di
qualche gentile lettore, ne innalzano l’anima e la purificano…C’è
bellezza nei libri! E i libri, non sono forse il corpo con cui
abbracciamo il mondo?”
Adesso veniamo alla trama del romanzo,
sebbene i fatti siano davvero pochi, per cui preferirei parlare di
alcuni punti vitali, psichico-emotivi: K. arriva nel Castello dove trova
riuniti i personaggi della letteratura di tutti i tempi, ai quali
Beatrice, la musa di Dante, promette la visione del Decimo cielo.
Tuttavia, anche dopo questa promessa, i Personaggi tentennano fino al
punto di stare per cedere al consiglio di Odisseo di bruciare la
Biblioteca e fare cessare per sempre la produzione dei libri, così che
le loro anime, liberate dal sogno, possano emigrare nei corpi degli
uomini per vivere un nuovo e vero romanzo. A lui si oppone, e
ovviamente, Montag, l’eroe di “Fahreneit 451” di Ray Bradbury, che
esalta la Bellezza custodita nei libri e, citando il passo
dell’Apocalisse, in cui si dice: Furono aperti i libri e fu aperto anche
un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati in base a
ciò che era scritto in quei libri, ciascuno secondo le sue opere…”, la
investe di un’aura di sacraIità. La stasi della scena viene interrotta
dall’improvviso salto di Pinocchio dal ponte e dalla sua morte in una
chiazza di sangue che è, secondo l’opinione del Padre dei “Sei
personaggi”, la prova che il burattino è morto e vissuto veramente, “che
vera fu la metamorfosi dalla sua natura di legno all’umana natura” e
che, dunque, sarà per loro più semplice, “essendo più vicini al vero”,
avverarsi. A questo punto si inserisce il discorso di Don Chisciotte che
espone la teoria della soaltà peraltiana, sostenendo che il sogno non è
fantasia ed ha il primato sulla realtà che esso stesso genera.
Successivamente prendono la parola le Cose stesse che cercano di
dissuadere i Personaggi dal volere vivere in un mondo abitato dal caos e
dalla follia informatica, incitandoli a tornare nel Castello:
esortazione che viene rafforzata da quella del Padre che mette in
risalto la necessità per gli uomini di rinunciare al male. Anche
Odisseo, eroe pagano, comincia a capire che il passaggio verso
l’immortalità va cercato in profondità attraverso il ponte verticale,
cioè attraverso un’ascesa spirituale realizzabile solo grazie ad una
guerra giusta ed altruista per salvare la specie umana dagli umanoidi.
Ancora una volta il dialogo fra i personaggi viene interrotto
dall’irruzione di alcuni uomini- rinoceronti (con evidente allusione a
Ionesco), uno dei quali si ferma, mostrando di reggere sulla groppa
nientemeno che Pinocchio redivivo, il quale chiede l’aiuto degli altri
per lottare e rinconvertire i rinoceronti in esseri umani, nella
convinzione che “Finché c’è fiaba, c’è ancora speranza per l’uomo!”,
così come l’apparizione di un liocorno testimonia la necessità per gli
umani di storie, di favole e di poesia. Infine i Personaggi conquistano
la visione del decimo cielo, cioè la Galassia dei segni, il paradiso
della scrittura, l’Empireo in cui campeggia l’albero della Visione.
Questi nodi narrativi costituiscono l’occasione per una serie di
dialoghi e monologhi, anche se in questo romanzo la differenza fra le
due cose è molto sottile, poiché anche i monologhi si riverberano sulla
psiche degli altri personaggi determinando mutamenti, dubbi, sentimenti
corali.
Per finire, va sottolineato che tutti i Personaggi, anche
quelli pagani, compiono, di capitolo in capitolo, un percorso verso
l’Amore cristico e che è per questo che diventano degni della visione
del Decimo Cielo. Dice, infatti, Sonja, la più ardente e quasi mistica
fra i personaggi: “L’amore e la compassione saranno il nostro progresso
spirituale” e, ancora, “Solo l’amore riconduce il mondo a Dio”.
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