Giuseppe La Russa
26 novembre 2012
«O voi che cercate il sommo bene nella profondità della scienza, nel
tumulto dell’azione, nell’oscurità del passato, nel labirinto del
futuro, nelle fosse e sopra le stelle, sapete voi il suo nome? Il suo
nome è bellezza»!
Così
scriveva Friedrich Hölderlin, e la frase potrebbe in parte racchiudere
il senso dell’ultima creazione di Guglielmo Peralta, H-ombre-s.
Il condizionale è d’obbligo, poiché una recensione, una critica, un
riassunto della suddetta opera dello scrittore palermitano, devono
muoversi su uno spazio oscillante, diafano, così come su un terreno
tutt’altro che stabile agiscono i personaggi di questo particolare
romanzo. Procedere con un criterio univoco, fisso ed immutabile,
significa forse non farci raggiungere il quid delle azioni
raccontate che si trovano ambientate all’interno di una superficie
contesa dalla letteratura e dalla filosofia, in uno spazio che si
sottrae alla tirannia del Tempo, che è un non luogo e che è nel sogno.
Svariati
sono i temi trattati nello spazio di 180 pagine, diversi gli ambiti
sfiorati dai personaggi che ravvivano il racconto, dal tema “infinito”
dell’Amore, dalle opposizioni pesantezza-leggerezza, anima-corpo,
materialità-spiritualità, immanenza-trascendenza, al tema della
Bellezza, il tutto in una scenografica allegoria dell’Arte, intesa, in
ultima istanza, come via di liberazione dal dolore, per dirla con
Schopenhauer.
Ma
proviamo a procedere con maggior ordine possibile. La trama del
racconto può riassumersi, forse, in poche parole: personaggi
“estrapolati” dai classici della letteratura mondiale e dal mito (a
colorare il testo intervengono, tra gli altri, Odisseo, Euridice,
Beatrice, Pinocchio, i Sei Personaggi in cerca d’autore pirandelliani)
vivono in una dimensione che è a metà tra il sogno e la realtà, in un
luogo spazio-temporale non perfettamente definibile che Peralta
definisce, con un suo neologismo, Soaltà, e tentano la fuga verso
la vita vera, quella degli uomini reali, nonostante sia da tutti vista
come «troppo carica di nefandezze e colpe mondane». Questi personaggi
non sono altro che ombre (l’autore utilizza il sostantivo Hombres, declinato in questa maniera, H-ombre-,
gioco linguistico italo spagnolo tra ‘uomini’ ed ‘ombre’) che sperano
di vivere la realtà vitale di chi li ha creati, dei loro dei, ossia
degli autori che li hanno pensati e che hanno raccontato le loro storie
sulla pagina; sono ombre e la loro vita appartiene al sogno e «il sogno è
la realtà di cui consistiamo», afferma Euridice. Nella loro
aspirazione, però, alla fuga, si manifesta una delle opposizioni su cui
il racconto si poggia, quella, per l’appunto, tra materialità e
spiritualità, immanenza e trascendenza, dicevamo: la vita vera è sì
guardata come il luogo della pesantezza, del fardello continuo, a
differenza della leggerezza e spiritualità in cui “vivono” le ombre, ma a
quella materialità i personaggi non possono che aspirare, non possono
che tendere, mantenendo così fede all’umanità di cui i loro autori li
hanno rivestiti nelle avventure libresche.
Diversi
i temi toccati, dicevamo, nel corso del racconto, in cui ogni pagina è
estremamente densa, piena, in cui ogni foglio, ogni parola sono cariche
di un significato generale, ogni termine possiede in sé una carica
immaginifica ed esplosiva che nel tutto si scioglie: è questa la cifra
stilistica che sottende al libro di Peralta, che nelle strategie
lessicali trova uno specchio perfetto della storia raccontata. Il perché
di questa considerazione è presto detto e risiede nella totale fiducia
sulla Parola (che Gorgia definiva un «potente sovrano») e nell’Arte,
madre della Bellezza.
Italo
Calvino afferma come la letteratura non potrà mai morire, mai cesserà
di esistere, perché fino a quando ci sarà vita, essa avrà il magico
potere di raccontarla. Questa la fede di Peralta che trasuda da ogni
singola pagina.
Ma
come il dettaglio si sciolga nell’insieme, nella forma – dicevamo – e
nella trama, lo scopriamo nella questua dei personaggi, nel loro
tentativo di fuga “alla vita”, nella risposta che infine troveranno.
Hölderlin, che inizialmente avevamo citato, ci ammaestra nel suo
romanzo, Iperione, come la vita autentica, quella degli dei,
consista nell’essere, appunto, uno con il tutto e che questo tutto, che è
Uno, è l’infinito che si rivela nell’uomo che per raggiungerlo deve
affidarsi alla Bellezza.
Ecco
la risposta, ecco il particolare che trova sede nell’universale, in
nome della Bellezza e dell’Amore, altro tema portante del racconto e che
prende corpo attraverso le parole di Beatrice e che ricalcano ciò che
Dante di quella forza cosmica aveva teorizzato. Nelle parole della donna
salvifica Amore è reciprocità, affinità, forza che all’uomo «fa
abbandonare la sua torre d’avorio confermandolo unico nel riconoscimento e nell’accoglienza dell’altro»: concetto, questo, che quasi in maniera naturale rimanda a Francesco di Sales e al suo Trattato dell’Amor di Dio, in cui la potenza dell’Amore stesso si manifesta nella convenienza,
nel “venire insieme”, nel senso che «come l’uomo non può essere portato
a perfezione se non dalla divina Bontà, così la divina Bontà non può
veramente esercitare così bene la sua perfezione al di fuori di sé se
non attraverso la nostra umanità: l’una ha grande bisogno e grande
capacità di ricevere del bene, e l’altra ha una grande abbondanza e
grande inclinazione a donarlo».
È questo l’iter che Beatrice consiglia, la risposta che si dà Sonja, personaggio chiave del racconto ed estrapolato da Delitto e castigo
di Dostoevskij: ogni personaggio troverà la propria risposta nella
stesse sede in cui si trova, proprio perché il singolo è diventato
tutto, è diventato insieme. La loro forza e la loro vittoria
stanno nel donare l’immortalità a chi li ha pensati, a chi li ha
generati, come li avverte con accorate parole il ciclope Polifemo, sul
finire del racconto: «Voi siete spirito e figli dello spirito, generati e
non creati dalla Bellezza, da questa Virtù immacolata».
Ogni
personaggio si illumina nella consapevolezza di essere luce nel mondo,
«perché gli esseri umani hanno bisogno di storie, di favole, di poesia, e
noi siamo quel pane che si moltiplica e che essi ricevono per la
ricchezza dello spirito», perché, urlano a gran voce i personaggi ombra –
e con essi la Letteratura, la Poesia, l’Arte – «c’è verità nella
Bellezza» e «c’è Bellezza nei libri!... E i libri, non sono forse il
corpo con cui abbracciamo il mondo?...».
Con i libri e per mezzo di essi l’uomo può ancora trovare spazio nella soaltà
dei personaggi che legge, lì restare, sciogliersi con essi, diventare
parte di un tutto, un tutto, direbbe Hölderlin, il cui nome è Bellezza.
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